Visualizzazione post con etichetta Economia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Economia. Mostra tutti i post

martedì 28 febbraio 2017

S. Latouche, R. Mancini, M. Barros, G. Mattioli, L’idolatria del mercato, ed. l’Altrapagina, 2016


Decrescita. Partecipazione. Buon vivere. Ecologia. Quattro parole da comprendere bene, da masticare fino a farle proprie in ogni più intima fibra, da digerire fino a trovare il modo – personale e collettivo – per metterle in pratica nella maniera più efficace e tempestiva possibile. Perché mai? ci si domanda. Solo perché “un altro mondo è possibile”?
Al contrario: è perché è questo mondo che è impossibile. Come impossibile è il suo fondamento: produrre sempre di più (infinitamente di più; all’infinito) a partire da un sistema finito (perché, si sa, le risorse del nostro pianeta sono limitate). E l’idea di poter creare ricchezza dal nulla dovrebbe essere una pretesa della religione… non dell’economia.
Ma questa economia si arroga sempre di più i diritti della religione e aspira a prenderne il posto: fa del denaro un idolo, cui spetta ogni primato (anche su Dio, anche sugli uomini); fa dello spirito – e dell’uomo spirituale – qualcosa di superfluo e tutto sommato fuori moda (quante volte abbiamo sentito dire dalle neuroscienze che gli esseri umani non sono altro che macchine elettrochimiche?); fa della propria impresa accumulatrice una teodicea, per cui il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili (la penserebbe così il miliardo di persone che vive con meno di due dollari al giorno, senza acqua potabile ed esposto a malattie curabili altrove con un paio di pastiglie? Ma tanto nessuno glielo domanda).
Perciò è necessaria la partecipazione. La democrazia. Per restituire la voce a quelli che non ce l’hanno. Per reimpossessarsi della possibilità di costruire il futuro che per troppo tempo è stata delegata. Per rimettere l’uomo – e non il vitello d’oro – al centro non solo del sistema produttivo, ma anche della politica e della cultura.
Unitamente al pianeta – quell’essere vivo, secondo una certa ottima filosofia, con i suoi onnipresenti microrganismi e il suo pullulare di vitalità fin nel più impercettibile dei movimenti atomici – che, proprio come ognuno di noi, può dare tanto all’umanità, ma ha bisogno di cura.
L’idolatria del mercato è un libro impegnato nella demistificazione della favole del capitalismo e nell’opera di riconsegnare agli uomini il proprio destino: consigliato a tutti coloro che intendono riprendere e spingere più in là il discorso iniziato con i quattro autori all’ultimo convegno dell’Altrapagina (2016). E a chiunque desideri muovere i primi passi in questo ambito affascinante e, ahimè, sempre più urgente da affrontare.


S. Latouche, R. Mancini, M. Barros, G. Mattioli, L’idolatria del mercato, ed. l’Altrapagina, 2016.

«l'Altrapagina», febbraio 2017)

venerdì 31 luglio 2015

Multinazionali 1-Cittadini 0. Intervista a Guido Viale sul TTIP e il futuro dell'Europa


Guido Viale, leader nel ‘68 della protesta studentesca ed ex-dirigente di Lotta continua, è membro del Comitato tecnico-scientifico dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’Ambiente (ISPRA). Collabora con «Repubblica» e «il manifesto».

TTIP: che cos’è e perché continuiamo a parlarne?
Il TTIP è un trattato internazionale fra il governo degli Stati Uniti - in specie il Ministero per il Commercio Estero - e la Commissione Europea, in particolare un gruppo di lavoro a cui partecipano moltissimi rappresentanti della grande industria e della finanza europea. Le sue finalità ufficiali sono quelle di abbattere le barriere non-doganali del commercio fra le due sponde dell’Atlantico: in soldoni per “barriere non-doganali” si intendono i diritti, tutta la legislazione che riguarda la protezione dell’ambiente, della salute, della sicurezza e della stabilità del lavoro. Tali norme - in quanto comportano ovviamente dei costi - vengono considerate “ostacolo” alla libera circolazione delle merci - soprattutto perché la legislazione americana è molto più blanda di quella europea: si pensi ad esempio che mentre in Europa (pur con i dovuti distinguo) è in vigore il principio fondamentale di precauzione, per il quale la dimostrazione della non nocività di un nuovo prodotto da commercializzare ricade sull’azienda produttrice, negli Stati Uniti vige il principio contrario, per il quale soltanto l’autorità pubblica - magari su sollecitazione di singoli o di gruppi di cittadini - è tenuta a fare simili controlli atti a dimostrare la pericolosità di un prodotto che verrà poi eventualmente rimosso dalla circolazione. C’è anche un’altra questione
continua il professore:
il TTIP è un trattato bilaterale fra la UE e gli USA, che non sostituisce la precedente normativa dell’Organizzazione Mondiale per il Comercio, ma la integra e in certo modo la scavalca: è il tentativo - da parte degli Stati Uniti - di fare accordi ristretti con i suoi partner commerciali, onde evitare le complessità di trattati che coinvolgano tutti o quasi i Paesi del mondo (come, appunto, quelli all’interno dell’OMC). Questo trattato - gemello del TPP, relativo al sud-est asiatico (Cina esclusa, in evidente funzione anti-cinese) - ha anche lo scopo implicito di mettere in riga Paesi riluttanti ma dallo scarso potere commerciale.
Poi c’è la famigerata clausola sinteticamente denominata “ISDS”.
Sì, per la quale la risoluzione di un contenzioso tra uno Stato nazionale sovrano e una o più aziende multinazionali va affidato a una corte arbitrale di giudici privati - sostanzialmente avvocati dei grandi studi di diritto internazionale: in pratica, se una certa impresa ritiene che la legge di un certo Stato sia dannosa per il suo commercio, può rivolgersi a una corte per dirimere la disputa. Come a dire: le leggi degli Stati dovranno ricevere il nulla osta da parte delle aziende.
La clausola ISDS (Investor-State Dispute Settlement) assomiglia alla clausola di roll-back del famigerato AMI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti) di qualche decennio fa. Solo che quello veniva imposto dagli Stati ricchi del Nord a quelli poveri del Sud. Il TTIP invece sembra un’imposizione degli USA ai loro “alleati” europei…
C’è una grossa disputa su questo punto: l’Unione Europea ricaverebbe dei vantaggi da questo accordo, o no? A questo proposito va sottolineato che perfino le previsioni più ottimistiche - verosimilmente false perché infondate - indicano come massimo per i vantaggi ricavabili dalla UE dall’approvazione di questo trattato… un aumento dello 0,6% del PIL. Cioè praticamente niente. Mentre gli svantaggi sono immediati e tangibili, e non riguardano le grandi industrie multinazionali che controllano il negoziato, bensì le piccole imprese, i loro lavoratori e i cittadini tutti. D’altro canto si tratta di qualcosa che conosciamo già: clausole come queste sono già presenti in altri trattati internazionali, come il NAFTA (tra Canada, Messico e USA), accordo che ha portato alla rovina di un milione e mezzi di contadini messicani, favorendo la commercializzazione del mais OGM d’oltrefrontiera. Insomma: non siamo di fronte a delle novità assolute, ma a qualcosa che rischia di rendere gli Stati nazionali ancora più sudditi dell’economia di quanto non siano già, e di dare un’ulteriore poderosa spallata ai già traballanti diritti del lavoro e dell’ambiente.
Quello che veniamo a sapere è frutto di fuga di notizie o dell’azione di Wikileaks: sembra di stare di fronte a segreti militari, anziché ad accordi economici. Siamo di fronte a una specie di guerra commerciale?
Potremmo dire di sì, anche se la guerra in atto non è tra USA e UE, bensì tra le grandi multinazionali commerciali e finanziarie (degli USA e dell’UE) contro le popolazioni dei relativi Paesi. La cosa ha un rilievo particolare per l’Europa, che ha una legislazione di maggior tutela delle popolazioni rispetto a quella americana. In generale, quasti negoziati stanno avvenendo nel segreto più assoluto: c’è addirittura una clausola che prescrive che le norme dell’accordo non vengano rese pubbliche entro 5 anni dalla data di sottoscrizione dell’accordo stesso. Se questo accordo venisse approvato, per i prossimi 5 anni il commercio internazionale si svolgerebbe secondo regole che nessun cittadino europeo o americano conoscerebbe e che potrebbero venir rivelate solo in caso dell’insorgere di un contenzioso. Siamo di fronte a una violazione clamorosa dei più elementari principi, non solo della democrazia, ma anche della decenza.
Ma se gli accordi verranno resi noti solo 5 anni dopo la sottoscrizione… a quali norme dovrebbe assoggettarsi un’azienda che intendesse commerciare con l’altro capo dell’oceano?
È un aspetto al contempo risibile e inquietante della questione: perché intanto le grosse aziende multinazionali direttamente coinvolte nella stesura del testo sono già ben al corrente di ciò di cui si sta parlando. Quelli che non ne sono al corrente sono i cittadini degli Stati che dovranno attenervisi, e perfino una gran parte dei loro organismi politici e istituzionali. Paradossalmente, uno Stato potrebbe venire a scoprire una certa clausola contrattuale… solo al momento di ricevere una citazione in giudizio da parte di un’impresa multinazionale. È evidente come questo trattato ponga le imprese multinazionali su di un piano più alto rispetto agli Stati nazionali. I quali, infatti, non sono direttamente coinvolti nella trattativa, che è invece affidata a un ristretto gruppo di persone nominate.
L’Italia, in particolare, avrebbe qualcosa da guadagnarci? O da temere?
L’Italia ha da temere in primo luogo per tutto quello che riguarda la produzione nel settore agroalimentare, perché la protezione dei marchi made in Italy, come ad esempio il parmigiano, passa per il rispetto dei protocolli di produzione tradizionali, che potrebbero venir alterati dalle richieste internazionali. La stessa Unione Europea, ad esempio, sta sottoponendo a procedura d’infrazione l’Italia su una questione del genere: perché pretende che i marchi relativi alla produzione di certi formaggi possano valere anche nel caso di utilizzo di latte condensato (anche d’importazione), mentre i marchi italiani (e la normativa che li tutela) prevedono l’utilizzo tassativo ed esclusivo di latte fresco. Ovviamente il settore alimentare non è l’unico a doversene preoccupare: in generale, sarebbero i diritti dei lavoratori i primi a risentirne. Perché diritti significa costi. E ciò che questo signori vogliono… è risparmiare. Ma anche il risparmio ha un costo. E sono sempre gli stessi a pagarlo.
La situazione attuale in Grecia può contribuire in qualche modo allo sviluppo dell’accordo?
La situazione è ambivalente. Da un lato la mancanza del supporto della Grecia potrebbe ostacolare il corso dell’accordo (rallentandolo, o addirittura fermandolo del tutto); d’altro canto, se la Grecia si rifiutasse di prendere parte ai negoziati (o uscisse tout court dalla UE) potrebbe rendere la vita più facile agli altri. Siamo in bilico.
Che cosa si può fare concretamente, come cittadini, per esprimere il proprio dissenso nei confronti del TTIP?
La prima cosa è informarsi, che è quello che cerchiamo di fare qui; c’è poi online una forte campagna contro l’approvazione del TTIP, che sta ottenendo dei risultati importanti, sia portando alla luce alcuni degli aspetti segreti del trattato, sia sollecitando l’opinione pubblica nei confronti dei partiti, al punto da costringere il Presidente del Parlamento Europeo a rinviare la votazione a tempo indeterminato, preoccupato di non avere la maggioranza sufficiente. La parola chiave è “partecipare”. In democrazia conta la voce di ciascuno di noi.
(«l'Altrapagina», luglio-agosto 2015)

venerdì 17 aprile 2015

E lo chiamano lavoro...

Dando una rapida scorsa alle notizie in rete (idem sulla carta stampata) si nota facilmente che le due parole più gettonate in politica interna sono “lavoro” e “Costituzione”. Ma se si parla tanto delle due cose di cui più si sente la mancanza, qualche problema deve pur esserci. Al di là delle promesse e degli ottimismi del Presidente del consiglio di turno.
Per intenderci: di quale lavoro stiamo parlando? Di quello precario, a nero, a contratto, a ricatto (con minaccia di licenziamento in tronco), a ore, a termine, a progetto? È lavoro quello? Non dico che debba davvero nobilitarmi, come auspica il detto (e chi ci ha mai creduto?), ma almeno non dovrebbe avvilirmi (cosa che invece oggi fa). Per quanto riguarda la Costituzione italiana, stiamo messi un punto peggio: come ha spiegato brillantemente - con tutta la sintesi dell’evidenza - Gustavo Zagrebelsky, la Repubblica italiana è fondata sul lavoro; da esso seguono (devono seguire) le politiche economiche e da queste, infine, l’economia dello Stato. E qui non si può non notare come le cose vadano esattamente al contrario: l’economia detta legge agli Stati, che progettano e varano politiche economiche guardando trepidanti alla risposta dei mercati, le cui conseguenze ricadono a valle sul lavoro. La domanda è dunque: il lavoro è il dignitoso fondamento della vita degli italiani sancito dalla Costituzione, o è diventato qualcosa d’altro che lavoro non è più, anche se si continua a chiamarlo così?
A questa domanda provano a rispondere Carla Ponterio - magistrato dal 1987 - e Rita Sanlorenzo - giudice del lavoro da oltre vent’anni - nell’agile volume E lo chiamano lavoro… (ed. GruppoAbele). Il lavoro, che nell’antichità classica era disprezzato come qualcosa di innaturale (o quanto meno di plebeo, se non di barbaro e schiavizzante), è stato da un certo punto in poi (con la rivoluzione industriale e la filosofia liberale e comunista, da Locke fino a Gramsci) visto come la massima possibilità di autorealizzazione dello spirito umano. Oggi, alla fine di questo sogno di maturità e di indipendenza, il lavoro è qualcosa di deprezzato e da deprezzare, onde competere sempre più sul mercato globale. Come siamo arrivati a questo? E, soprattutto, come possiamo uscirne? In poco più di cento pagine le autrici rispondono anche a queste domande, sottolineando che i diritti del lavoro non vanno smantellati a favore dell’economia: se questa non può garantirli, è lei che andrebbe smantellata, non le garanzie. Perché i diritti non sono mai solo del lavoro, ma - tramite esso - dell’uomo. E l’uomo dovrebbe venir prima dei soldi. O no?

(«Il Caffè», 10 aprile 2015)

venerdì 3 aprile 2015

S. Latouche, Decolonizzare l'immaginario, ed. EMI, 2014

«Devo riconoscere che tra l’economia e l’etica non traccio alcuna frontiera precisa, se ancora ne faccio la distinzione. Il regime economico che va contro il progresso morale di un individuo o di una nazione non può essere che immorale. Così come ogni sistema economico che permette di gettarsi su un altro paese per farne la propria preda. Lo scopo da raggiungere è promuovere la felicità dell’uomo, facendolo arrivare a una completa maturità, mentale e morale» (M.K. Gandhi). Difficile iniziare con parole diverse da quelle dell’epigrafe una presentazione del volume di Serge Latouche Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo (ed. EMI), dedicato come sempre alla decrescita economica (termine ormai associato al suo nome, al di là della paternità formale), ma stavolta con un taglio particolare: riflettere sul ruolo che ha in economia la persuasione delle masse, onde inoculare una visione del mondo per la quale non c’è alternativa al capitalismo (in inglese T.I.N.A. - There Is No Alternative). A questo serve la propaganda e, ovviamente, la pubblicità: “colonizzare l’immaginario”, facendo credere che questo sia il migliore dei mondi possibili; suggerendo che una crescita produttiva infinita sia tanto possibile quanto auspicabile (mentre ci sarebbero dubbi ben più che ragionevoli sia sulla prima sia sulla seconda); illudendo che esista qualcosa chiamato “sviluppo sostenibile” (qualunque cosa significhi); insinuando che la decrescita, in fin dei conti, non sia che l’apologia della povertà, se non della miseria.
Come reagire? Il piano dialettico non basta: i loro megafoni sono più grandi dei nostri. L’unica alternativa è liberare l’immaginazione e creare quell’alternativa che - dicono - non esista. Insomma: invece che spiegare le ragioni della nascita, tagliare il cordone ombelicale e dar vita alla nuova creatura. Quello che Latouche fa in questo libro-intervista, corredato di una pregnante sezione conclusiva delle FAQ. Dove si legge: «La decrescita non cerca compromessi con il capitalismo. Non tanto perché ne denuncia i limiti ecologici e sociali, ma soprattutto perché ne mette in discussione lo spirito, l’ideologia che riduce a merce ogni risorsa naturale, comprese quelle ritenute beni comuni, come l’acqua che beviamo. A questa visione mercantile della scienza e della natura occorre contrapporne una nuova». Parole sante. Quando cominciamo?


S. Latouche, Decolonizzare l'immaginario, ed. EMI, 2014.

(«Il Caffè», 27 marzo 2015)

martedì 31 marzo 2015

Chi ha e chi non ha

La distribuzione del reddito è un argomento di attualità tra la gente. Il dibattito sulla differenza tra chi guadagna poco (e a suo dire - magari non senza ragione - lavora e fatica) e chi guadagna molto (senza fare “un tubo”, come si dice spesso con altrettanta ragione) è all’ordine del giorno e sembra che in certi luoghi di lavoro non si riesca a parlare d’altro (oltre che del calcio, ça va sans dire). Curiosamente però, lo stesso dibattito è assente dall’arena politica e mediatica dell’Occidente. Nei casi più fortunati - quando proprio qualcuno è in vena di “dire qualcosa di sinistra” - si tira fuori l’idea di qualche aiuto alle famiglie, bonus sociali di vario tipo, riduzioni e sconti alla spicciolata (come se la vita fosse una specie di grande cinema). Ormai è chiaro a tutti come i ricchi stiano diventando sempre più ricchi (e i poveri, per converso, sempre più poveri); Alla balla della marea (l’economia) che sale e innalza tutte le navi… non ci crede più nessuno. Come mai allora questo problema non è all’ordine del giorno di tutte le agende politiche dei Paesi sedicenti “sviluppati”?
È la domanda che, tra le altre, si pone Branko Milanovic, economista della Banca mondiale e docente all’Università del Maryland, nel suo Chi ha e chi non ha. Storie di disuguaglianze (ed. Il Mulino). Che mette in luce - attraverso un’analisi dotta ma non specialistica, raffinata e puntuale ma accessibile a tutti - una fondamentale verità: con tutti i suoi discorsi sull’aumento complessivo del PIL e nient’altro, l’economia si comporta come se avesse a cuore solo le sorti delle sue cifre, e non le sorti degli uomini che da quelle cifre dovrebbero trarre il loro benessere reale. È evidente infatti che una maggiore uguaglianza (peraltro promessa dallo stesso capitalismo che la nega, con il suo slogan ancor oggi sbandierato: “Saremo tutti ricchi!”) sia la condizione necessaria ad ogni sano sviluppo personale e sociale. Milanovic, con grande competenza, esamina la storia della distribuzione nel reddito dall’antichità ai giorni nostri, attraverso le rivoluzioni, i socialismi, le tante storie di organizzazione e sfruttamento che l’umanità ha conosciuto finora. Riuscendo a spiegare alla gente comune le ragioni (e le colpe) dell’economia; e agli economisti (soprattutto agli amici dei politici), parafrasando il Vangelo, che non l’uomo è per l’economia, ma l’economia è (deve essere) per l’uomo.

(«l'Altrapagina», marzo 2015)

venerdì 20 febbraio 2015

I. Visco, Investire in conoscenza, ed. Il Mulino, 2014

Inutile parlare ancora di crisi: ormai la conosciamo bene, per averla esplorata in lungo e in largo, in ogni dettaglio e da ogni prospettiva. Quello che, nonostante ciò, ancora non conosciamo, è come venirne fuori. Soprattutto se si pensa a come progettare un trend - economico, industriale, occupazionale - che sia in grado di resistere agli scossoni del tempo e alle sfide già visibili all’orizzonte del prossimo quarto di secolo, tra una competitività sempre più sfrenata e una tecnologia in vertiginosa avanzata. Ci vorrebbe probabilmente quel coraggio che fra tutti più manca: quello di investire in ricerca innovativa, nella convinzione che solo la conoscenza - come già sosteneva Benjamin Franklin - sia l’investimento più redditizio sulla lunga distanza…
Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia e membro direttivo della BCE, scrive un libro (qui proposto nella seconda edizione, abbondantemente ampliata e aggiornata rispetto alla precedente del 2009) dall’analisi economica dotta e raffinata, in equilibrio tra lo sguardo distaccato del tecnico e quello appassionato del politico. Per la sua qualità intrinseca la trattazione non è suscettibile di critica né tanto meno di confutazione, che richiederebbero in ogni caso uno spazio almeno pari a quello del libro stesso. Ciò che si annota - come spunto per una lettura che voglia andare oltre la mera presa d’atto - è che forse il disagio dei tanti economisti nel maneggiare le difficoltà del nostro tempo sta nell’inadeguatezza di un linguaggio e di categorie concettuali datate che appartengono ormai, si può ben dirlo, al bagaglio del millennio scorso. È l’incapacità di andare oltre le idee di “crescita a tutti i costi”, “concorrenza”, “risorse umane”, a impedire la rigenerazione di un’idea dell’uomo e della società in una forma più attuale. Comunque la si pensi al riguardo, un dato è chiaro: il disegno di un’economia per il domani dovrà partire da da quella di oggi e dalla visione che ne ha chi la conosce bene. Quelli come Visco saranno sempre, in questo senso, degli interlocutori privilegiati.


I. Visco, Investire in conoscenza, ed. Il Mulino, 2014.

(«Mangialibri», 20 febbraio 2015)

venerdì 23 gennaio 2015

T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, ed. Bompiani, 2014

Qual è la caratteristica principale del nostro mondo attuale, rispetto a tutti quelli che l’hanno preceduto: la globalizzazione? Certo, non si può negarlo, le genti e le culture non sono mai state tanto a contatto; ma non è questa la vera novità. La ricchezza? Indubbiamente la società umana non hai mai prodotto tante merci e tanti servizi, e il benessere odierno (soprattuutto se inteso in termini di comodità e di possibiltà) non è mai stato tanto diffuso; neanche questa però è la vera peculiarità dei nostri giorni. A ben vedere, la caratteristica che rende questo momento storico unico e incredibile è l’ingiustizia. All’apice della ricchezza gli uomini conoscono disparità nella distribuzione della ricchezza che non si sono mai viste nella storia; oggi ci sono ancora persone che muoiono di malattie curabili (e sono milioni) e altre che vivono con meno di due dollari al giorno (e sono miliardi). Cosa può succedere se le differenze si accrescono, in un momento in cui l’autoconsapevolezza delle masse è importante e decisivo? Cosa ci insegna la storia - in particolare quella dell’economia politica - al riguardo? Soprattutto: se le leggi dell’economia non sono “atti divini”, cosa si dovrebbe decidere al riguardo, affinché - tramite appunto questa inusitata ricchezza - si possa costruire un mondo più giusto per tutti?
Thomas Piketty, nel suo momumentale Il capitale nel XXI secolo (meritevolmente edito da Bompiani ad un prezzo molto contenuto), grazie a una raccolta di dati sterminata (condotta in venti Paesi), analizza gli sviluppi del nostro capitalismo liberistico globale, nel tentativo di prevederne gli sviluppi (e i rischi conseguenti). L’esperienza insegna che in periodi come il nostro, in cui la rendita del capitale supera quella della produzione, gli squilibri dovuti alla disuguaglianza possono ingigantirsi e il sistema si espone a un crollo. Insomma: quando è troppo, è troppo. Scongiurare il peggio è un imperativo (oltre che morale, ca va sans dire) politico, e chi ha tra le proprie responsabilità quella di indirizzare lo sviluppo della società, non può non porsi questo problema. Il libro di Piketty, nonostante il titolo evocativo, è tutt’altro che un libro di divulgazione comunista: si tratta di uno studio scientifico (ma accessibile a tutti) nel quale la fanno da padroni numeri, grafici, tabelle e riflessioni dati-alla-mano. Sapiente senza essere pedante (basti pensare che dal momento della sua pubblicazione in Francia, nel 2013, è stato subito bestseller, al momento tradotto in trenta lingue) è una lettura più che consigliata a chi ama i fatti (qui documentati in maniera esemplare) più che la retorica. Che assume finalmente la giusta prospettiva: studiare solo la ricchezza o solo la povertà, come se fossero due variabili indipendenti, non basta più; vanno studiate insieme, perché solo nella loro relazione può venir individuata la chiave per risolvere i problemi del pianeta (da quello sociale a quello ambientale). Un mondo più giusto è possibile; ma, prima ancora, è necessario. E urgente.


T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, ed. Bompiani, 2014, pp. 950, euro 22.

(«Il Caffè», 16 gennaio 2015)

venerdì 12 dicembre 2014

L’economia è una menzogna

Più va scontrandosi con la propria insostenibilità (ambientale, sociale, ecc.) più l’economia dello sviluppo si sforza di ammantarsi di una pretesa scientificità dalle ambizioni assurde e via via più fantascientifiche: anche un bambino capisce che da un pianeta finito non si può tirar fuori una crescita infinita, come il capitalismo globale continua a sognare e a propagandare. Non riuscendo a mantenere le proprie promesse di sempre (ad esempio quella di un benessere maggiore per tutti) l’economia gioca al rialzo, ventilando sfarfallanti ipotesi di progressi tecnologici e biomedici da capogiro; ai quali però comincia a credere sempre meno gente, disillusa dalla crisi permanente e dall’evidente aumento della povertà a livello planetario. L’economia non appare più semplicemente come una dottrina che dice menzogne, ma come una menzogna in sé...
È su questa evidenza che si basa l’ultimo libro di Serge Latouche, dal titolo L’economia è una menzogna. Come mi sono accorto che il mondo si stava scavando la fossa (ed. Bollati Boringhieri) raccolta di tre interviste degli ultimi anni nella quale il grande economista e sociologo francese - meglio conosciuto come uno dei padri della “decrescita” - che spiega come mai l’economia appaia non solo menzognera, ma fondata sulla menzogna: in quanto rivendica radici scientifiche che non può vantare, essendo basata in profondità su convinzioni irrazionali volte in buona parte a giustificare l’avidità e la disuguaglianza. Ma come diceva Gandhi, c’è abbastanza ricchezza al mondo per i bisogni di tutti, ma non per l’ingordigia di tutti: se l’economia del futuro non riparte da qui, non c’è futuro per l’economia. E neanche per noi.

(«Il Caffè», 5 dicembre 2014)

venerdì 5 dicembre 2014

G. Votano, Le mutue di autogestione del denaro, ed. Città del sole, 2014

L’unione fa la forza: su questo principio millenario si fondano, tra l’altro, le banche, in grado di accumulare grandi capitali a partire da piccoli risparmi e di riallocare la ricchezza dove ce n’è più bisogno ai fini del benessere e dello sviluppo complessivo. Ma da quando le banche si sono allineate con il loro comportamento al luogo comune che le vede come quelle che danno soldi solo a chi ne ha già, ridotte ad agenzie di cambio per speculazioni finanziarie senza senso, sembra che di quell’antico e saggio modo di dire non si ricordi più nessuno. Be’, quasi più nessuno. Perché c’è ancora chi continua a tenere a mente che tutti hanno diritto ad avere accesso al credito, anche i più piccoli: e a ricordarlo nei fatti, non solo nelle intenzioni, investendo denaro in progetti che sanno brillare per la concretezza…
Le MAG (Mutue di AutoGestione) sono società cooperative finanziarie fondate sui principi della finanza etica e costituite sulla base della legge 15/4/1886, la stessa delle Società di Mutuo Soccorso. Esse - per le loro dimensioni e il loro orientamento, più flessibile e disponibile - sono in grado di arrivare con il loro sostegno laddove le banche non possono, come ad esempio soggetti privi di garanzie patrimoniali e reddituali, o addirittura segnalati alle centrali rischi. La loro esperienza, solitamente legata al territorio, ha ormai in Italia quasi quaranta anni (la prima è stata fondata a Verona nel 1978). All’iniziativa della creazione di una MAG nel profondo sud della Calabria viene devoluta una parte del prezzo di copertina di questo volume, che si apre con due importanti contributi di Loredana Aldegheri, co-fondatrice di MAG Verona e di Teresa Masciopinto, Responsabile Area Culturale per il sud di Banca popolare etica.


G. Votano, Le mutue di autogestione del denaro, ed. Città del sole, 2014, pp. 128, euro 8,50.

(«Il Caffè», 28 novembre 2014)

sabato 15 novembre 2014

M. Jevolella, Il segreto della vera ricchezza, ed. Urra, 2014

Al calar del sole, in un giorno di confine tra l’estate e l’autunno, il professore di economia passeggia sul lungomare di Marsala, prima di rientrare in albergo per unirsi nuovamente ai partecipanti al convegno su globalizzazione e welfare. È tardi e già sta per tornare all’auto blu che lo aspetta quando vede, in lontananza, un uomo che declama solitario una poesia al vento, seduto su uno scoglio. La curiosità - o forse si tratta di una forma di attrazione nuova e insospettata? - lo vince e il professore, incurante di tutto il resto, gli si avvicina per chiedergli cosa stia facendo. Il solo vederlo, tuttavia, rivela già il suo essere fuori dall’ordinario: e i due si mettono ben presto a discutere insieme del passato di quell’uomo - di come abbia perso, in quattro e quattr’otto, la moglie, il lavoro e quasi anche la speranza - del presente dell’economia capitalistica e del futuro dell’umanità…

venerdì 14 novembre 2014

L. Becchetti, Wikiconomia. Manifesto dell’economia civile, ed. Il Mulino, 2014

«L’urgenza dei tempi che stiamo vivendo è tale che ci inchioda a scrivere sempre lo stesso libro»: il libro che parla di quello strano paradosso per il quale l’economia, la “scienza triste”, ha la strana facoltà di trasmettere la propria tristezza a miliardi di persone costrette a vivere in condizioni di povertà, nonostante dichiari di volere il benessere per tutti; per il quale essa da un lato dice di voler migliorare la vita quanto meno della maggioranza, dall’altro assiste impassibile all’allargarsi della forbice dei redditi tra ricchi e poveri e all’estinzione della classe media; per il quale, ancora, invece di risolvere i problemi della fame e dello sfruttamento, si limita a occuparsi (e con quanta tenacia!) di inflazioncelle e piccoli sgravi fiscali (come un medico che, di fronte a una pandemia, si ostinasse a rifinire i lifting)...

mercoledì 5 novembre 2014

M. Cooper, La vita come plusvalore, ed. Ombre corte, 2014

Alcune delle cose che sentiamo ripetere spesso dai mezzi di comunicazione di massa sono palesemente false, lo sappiamo. Altre, invece, c’è bisogno di guardarle più da vicino per scoprirne l’infondatezza: è il caso ad esempio della cantilena per la quale la scienza sarebbe pura e disinteressata (come se non fosse fatta da uomini, basterebbe osservare), e del tutto aliena dagli interessi dell’industria. Al contrario i legami tra ricerca ed economia sono molto più antichi e solidi: lo sviluppo delle scienze bioetiche e quello del neoliberismo di stampo reaganiano, in particolare, sono nati insieme negli anni ’80 in base a una pianificazione politica deliberata. A noi, trent’anni dopo, non restano che i preoccupanti interrogativi a consuntivo di un’esperienza che ha fatto del superamento dei limiti e dei confini (primo fra tutti quello della vita, resa ormai soggetta alla proprietà e alla mercificazione) il suo vessillo: dov’è che finisce la (ri)produzione e inizia l’invenzione tecnologica? Cosa ne è qui dell’uomo? Si può brevettare la vita, e con quali conseguenze?
Melinda Cooper, ricercatrice presso l’Università di Sydney, parte dalla riflessione di Foucault sul neoliberismo e sul welfare state per mettere in luce anzitutto il rapporto delle recenti teorie neoliberali sull’accumulazione e quelle biologiche su crescita, complessità ed evoluzione; spingendosi poi a parlare di AIDS e industria farmaceutica, della bioeconomia al servizio della guerra e dell’ingegneria per la produzione di organi. Con una Prefazione della curatrice, Angela Balzano (che in più intervista l’autrice in apertura) e una Postfazione di Rosa Braidotti.


M. Cooper, La vita come plusvalore, ed. Ombre corte, 2014, pp. 155, euro 15.

(«Mangialibri», 28 ottobre 2014; «Pagina3», 5 novembre 2014)

martedì 28 ottobre 2014

E. Berti, Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, ed. Marietti, 2014

La distinzione - talvolta la contrapposizione - tra bene privato e bene pubblico ha radici antiche: già i romani conoscevano la differenza tra res privata (la proprità del singolo cittadino) e res publica (quella del popolo, inteso come gruppo tenuto insieme da un certo diritto e orientato a un obiettivo comune). Nella storia le cose non sono sempre state così, ci sono stati momenti in cui l’idea di bene pubblico era un’utopia (se non un’assurdità), in quanto l’uomo veniva inteso come un pericolo per l’altro uomo, qualcuno da cui difendersi. A che punto è oggi la riflessione? Cosa sono per noi questi termini? Hanno ancora un senso? E, al di là della propaganda politica, in che modo essi vengono realizzati concretamente nella nostra società?

giovedì 16 ottobre 2014

L. Gallino, Vite rinviate, ed. Laterza, 2014

La Flessibilità è la divinità planetaria del terzo millennio. Forse non l’unica, ma certamente quella cui i Paesi, i governi, i popoli si dedicano di più, tributandole un culto quotidiano e diffuso, fatto di dichiarazioni mediatiche, programmi politici, circolari aziendali, rivendicazioni sindacali… dal diario di un uomo di quell’epoca possiamo apprendere finalmente gli umori, le disposizioni, le intenzioni di chi viveva e lavorava in regime di Flessibilità, nel quale governi di sinistra - alcuni si spingono a farsi chiamare “laburisti” per evidenziare la propria prerogativa - si affannavano a rendere omaggio alla dea affinché, per sua intercessione, potessero tutti godere dei benefici inestimabili della crescita. Purtroppo accade spesso, anche nelle società più perfette, che vi siano dei dissidenti, pessimisti che si ostinano a chiamare la divinità con il tetro nome di “Precariato”, gridando allo scandalo dei contratti a termine e dei sacrifici umani richiesti dalla dea, tutte quelle vite rinviate a tempo indeterminato…

mercoledì 15 ottobre 2014

Ha-Joon Chang, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, ed. Il Saggiatore, 2014

Il libero mercato non esiste. La vera rivoluzione non l’ha fatta internet ma la lavatrice. Rendere i ricchi ancora più ricchi non rende tutti più ricchi. Più istruzione non vuol dire più ricchezza. I mercati finanziari devono diventare meno efficienti. Una buona politica economica non ha bisogno di buoni economisti. Sono solo alcune delle 23 verità che non solo non ti hanno mai detto sul capitalismo, ma che addirittura ti hanno raccontato al contrario: quando hanno cercato di convincerti che - uno di questi giorni - saremmo diventati tutti ricchissimi, ad esempio; o quando si sono affannati (e ancora lo fanno) a dire che il capitale non ha nazione e che l’economia pianificata è ormai un ricordo del passato. Il punto qui non è stabilire chi abbia mentito e per quali fini; il punto è capire - al di là della nebbia delle leggende e delle menzogne - come funziona veramente il capitalismo nella forma in cui lo conosciamo oggi: perché quello che è certo è che le cose non vanno come pensavamo, e che l’economia oggi non sta facendo l’interesse di tutti, anzi…

mercoledì 1 ottobre 2014

F. Folgheraiter, Non fare agli altri. Il benessere in una società meno ingiusta, ed. Erickson, 2014

Il tema dell’ingiustizia sociale è sempre stato all’ordine del giorno in tutte le società umane. A volte capita, tuttavia, che possa venir messo sullo sfondo - o addirittura dimenticato - da periodi di benessere relativo diffuso. È accaduto all’Occidente industriale degli ultimi decenni, ma la crisi finanziaria del 2008, che ancora fa sentire il suo peso, ha riportato il tema in primo piano. Per Fabio Folgheraiter, autore di Non fare agli altri. Il benessere in una società meno ingiusta (ed. Erickson), la questione va rimessa, e subito, al centro della politica. Da un lato perché si tratta di un’operazione necessaria: non c’è società, senza il giusto grado di coesione sociale, minata dall’aumentare degli squilibri relazionali (conseguenti a quelli economici); dall’altro, è un’operazione possibile: la nostra epoca viene percepita dai più - e giustamente - come quella in cui la fame, le malattie… e le ingiustizie sociali potrebbero agevolmente venir sconfitte, se solo lo si volesse.

lunedì 22 settembre 2014

G. Arrighi, Il lungo XX secolo, ed. Il Saggiatore, 2014

Il capitalismo innesca dapprima un’espansione della produzione e del commercio, poi - quando questa raggiunge un suo primo limite critico (è il momento di una “crisi spia”, nella quale il capitale, già in gran parte investito, si riduce e rallenta l’accumulazione; la conseguenza è che il capitale residuo tende a rimanere in forma liquida, cercando opportunità d’investimento finanziarie anziché produttive) - avvia un’espansione finanziaria che rilancia temporaneamente la prima, finché si giunge a un secondo e definitivo limite, stavolta insostenibile, che dà luogo a una “riorganizzazione” del sistema capitalistico globale (“crisi”). Questo ciclicamente. Tali “cicli di accumulazione” vanno a braccetto con dei “cicli egemonici”, nei quali, a turno, un Paese politicamente (e militarmente) dominante si impone sulla scena internazionale come garante degli investimenti e dei profitti, oltre che del funzionamento stesso dei mercati (dal XV secolo ad oggi siamo passati da un’egemonia genovese-iberica a quella olandese del XVII, seguite da quella britannica del XVIII e da quella statunitense del XX). La storia si ripete, e ciclicamente, insomma; ma non torna mai uguale a prima, per cui nessuno può ancora dire con certezza quando e dove avverrà la prossima crisi, anche se si intravede già lo spostarsi dell’ago della bilancia...

martedì 16 settembre 2014

U. Mattei, Senza proprietà non c’è libertà. Falso!, ed. Laterza, 2014

L’organizzazione sociale basata sulla proprietà privata è ingiusta. E nulla può rivelarlo meglio di un fenomeno catastrofico e globale come l’ultima crisi finanziaria. Eppure, di fronte all’enormità del disastro, la schiera dei sostenitori del sistema economico dominante s’infoltisce, invece che estinguersi: curioso movimento che testimonia di quanto esso si nutra più dell’ideologia che lo sostiene che dei propri effetti reali. Uno degli slogan preferiti da questa ideologia è quello secondo il quale “la proprietà privata è la guardiana di ogni altro diritto”. Ma è veramente così? E se mai lo è stato davvero: lo è ancora? Viene piuttosto il sospetto che dietro la proprietà privata si nasconda un potere privante che si arroga (non solo legalmente; ma con la perversa malafede di star facendolo per il bene di tutti) il diritto di decidere chi possiede e chi no, chi sta bene e chi no, chi sopravvive… e chi deve soccombere. Un uomo che non possiede nulla e che, per tirare avanti, è costretto a fare un certo tipo di lavoro accettando un certo tipo di salario, non può veramente dirsi libero. Si può sfruttare l’uomo per il bene dell’economia? Si può essere “proprietari” della natura (come quelle multinazionali che brevettano i DNA delle piante esistenti)? Di chi è guardiana la proprietà privata: della libertà dell’uomo, o del potere dominante?

mercoledì 10 settembre 2014

Giustizia privatizzata. Intervista a Monica Di Sisto sul TTIP


Monica Di Sisto, giornalista, è vicepresidente dell’Associazione Fairwatch, che si occupa di commercio internazionale e di clima da oltre 10 anni. Insegna Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Con Fairwatch è tra i promotori della campagna nazionale Stop TTIP.

Che cos’è il TTIP?
Il TTIP è un trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico, ossia con l’intento dichiarato di abbattere dazi e dogane tra Europa e Stati Uniti rendendo il commercio più fluido e penetrante tra le due sponde dell’oceano.
L’idea sembrerebbe buona. Perché qualcuno lo definisce “pericoloso”?
Condividiamo la definizione perché, in realtà questo trattato, che viene negoziato in segreto tra Commissione UE e Governo USA, vuole costruire un blocco geopolitico offensivo nei confronti di Paesi emergenti come Cina, India e Brasile creando un mercato interno tra noi e gli Stati Uniti le cui regole, caratteristiche e priorità non verranno più determinate dai nostri Governi e sistemi democratici, ma modellate da organismi tecnici sovranazionali sulle esigenze dei grandi gruppi transnazionali.
I soliti “tecnici” che “rubano” il potere alla politica.
Infatti. Il Trattato prevede l’introduzione di due organismi tecnici potenzialmente molto potenti e fuori da ogni controllo da parte degli Stati e quindi dei cittadini. Il primo, un meccanismo di protezione degli investimenti (Investor-State Dispute Settlement - ISDS), consentirebbe alle imprese italiane o USA di citare gli opposti governi qualora democraticamente introducessero normative, anche importanti per i propri cittadini, che ledessero i loro interessi passati, presenti e futuri.
Le aziende citerebbero gli Stati in tribunale.
Non solo; le vertenze non verrebbero giudicate da tribunali ordinari che ragionano in virtù di tutta la normativa vigente, come è già possibile oggi, ma da un consesso riservato di avvocati commerciali superspecializzati che giudicherebbero solo sulla base del trattato stesso se uno Stato – magari introducendo una regola a salvaguardia del clima, o della salute – sta creando un danno a un’impresa. Se venisse trovato colpevole, quello stato o comune, o regione, potrebbe essere costretto a ritirare il provvedimento o ad indennizzare l’impresa. Pensiamo ad un caso come quello dell’Ilva a Taranto, o della diossina a Seveso, e l’ingiustizia è servita.
Una giustizia “privatizzata”, insomma.
Non è l’unica questione. Un altro organismo di cui viene prevista l’introduzione è il Regulatory Cooperation Council: un organo dove esperti nominati della Commissione UE e del ministero USA competente valuterebbero l’impatto commerciale di ogni marchio, regola, etichetta, ma anche contratto di lavoro o standard di sicurezza operativi a livello nazionale, federale o europeo. A sua discrezione sarebbero ascoltati imprese, sindacati e società civile. A sua discrezione sarebbe valutato il rapporto costi/benefici di ogni misura e il livello di conciliazione e uniformità tra USA e UE da raggiungere, e quindi la loro effettiva introduzione o mantenimento. Un’assurdità antidemocratica che va bloccata, a mio avviso, il prima possibile.
Per chi è allora vantaggioso il TTIP?
Il ministero per lo Sviluppo economico ha commissionato a Prometeia s.p.a. una prima valutazione d’impatto mirata all’Italia, alla base di molte notizie di stampa e interrogazioni parlamentari. Scorrendo dati e previsioni apprendiamo che i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell’arco di tre anni dall’entrata in vigore dell’accordo: il 2018, al più presto. Il TTIP porterebbe, entro i tre anni considerati, da un guadagno pari a zero in uno scenario cauto, ad uno +0,5% di PIL in uno scenario ottimistico: 5,6 miliardi di euro e 30mila posti di lavoro grazie a un +5% dell’export per il sistema moda, la meccanica per trasporti, un po’ meno da cibi e bevande e da uno scarso +2% per prodotti petroliferi, prodotti per costruzioni, beni di consumo e agricoltura. L’Organizzazione mondiale del Commercio ci dice che le imprese italiane che esportano sono oltre 210mila, ma è la top ten che si porta a casa il 72% delle esportazioni nazionali (ICE - Sintesi Rapporto 2012-2013: “L’Italia nell’economia internazionale”). Secondo l’ICE, in tutto nel 2012 le esportazioni di beni e servizi dell’Italia sono cresciute in volume del 2,3%, leggermente al di sotto del commercio mondiale. La loro incidenza sul PIL ha sfiorato il 30% in virtù dell’austerity e della crisi dei consumi che hanno depresso il prodotto interno. L’Italia è dunque riuscita a rosicchiare spazi di mercato internazionale contenendo i propri prezzi, senza generare domanda interna né nuova occupazione. Quindi prima di chiudere i conti potremmo trovarci invasi da prodotti USA a prezzi stracciati che porterebbero danni all’economia diffusa, e soprattutto all’occupazione, molto più ingenti di questi presunti guadagni per i soliti noti. Danni potenziali che né la ricerca condotta da Prometeia né il nostro Governo al momento hanno quantificato o tenuto in considerazione.
È vero che, nonostante l’enorme importanza della questione, il Parlamento europeo non abbia accesso a tutte le informazioni sul modo in cui si svolgono gli incontri e sullo stato di avanzamento delle trattative?
Il Parlamento europeo, dopo aver votato nel 2013 il mandato a negoziare esclusivo alla Commissione – come richiede il Trattato di Lisbona – potrà soltanto porre dei quesiti circostanziati, cui la Commissione può rispondere ma nel rispetto della riservatezza obbligatoria in tutti i negoziati commerciali bilaterali, sempre secondo il Trattato, e poi avrà diritto di voto finale “prendi o lascia”, quando il negoziato sarà completato. Nel frattempo non ha diritto né di accesso né di intervento sul testo. I Governi stessi dell’Unione, se vorranno avere visione delle proposte USA, dovranno – a quanto sembra al momento – accedere a sale di sola lettura approntate nelle ambasciate USA (non si capisce se in quelle di tutti gli Stati UE o solo a Bruxelles, e non potranno nemmeno prendere appunti o farne copia. Un assurdo, considerata la tecnicità e complessità dei testi negoziali.
Quali effetti potrà produrre l’accordo se verrà approvato nella sua forma attuale?
Tutti i settori di produzione e consumo come cibo, farmaci, energia, chimica, ma anche i nostri diritti connessi all’accesso a servizi essenziali di alto valore commerciale come la scuola, la sanità, l’acqua, previdenza e pensioni, sarebbero tutti esposti a ulteriori privatizzazioni e alla potenziale acquisizione da parte delle imprese e dei gruppi economico-finanziari più attrezzati, e dunque più competitivi. Senza pensare che misure protettive, come i contratti di lavoro, misure di salvaguardia o protezione sociale o ambientale, potrebbero essere spazzati via a patto di affidarsi allo studio legale giusto e ben accreditato.
Il TTIP produrrà dei rischi per i cittadini?
Tom Jenkins della Confederazione sindacale europea (ETUC), nell’incontro con la Commissione del 14 gennaio scorso, ha ricordato che gli Stati Uniti non hanno ratificato diverse convenzioni e impegni internazionali ILO e ONU in materia di diritti del lavoro, diritti umani e ambiente. Questo rende, ad esempio, il loro costo del lavoro più basso e il comportamento delle imprese nazionali più disinvolto e competitivo, in termini puramente economici, anche se più irresponsabile. A sorvegliare gli impatti ambientali e sociali del TTIP, ha rassicurato la Commissione, come nei più recenti accordi di liberalizzazione siglati dall’UE, ci sarà un apposito capitolo dedicato allo Sviluppo sostenibile che metterà in piedi un meccanismo di monitoraggio specifico, partecipato da sindacati e società civile d’ambo le regioni.
È il primo caso del genere? O c’è qualche “antenato”?
Un meccanismo simile è entrato in vigore da meno di un anno tra UE e Korea, con la quale l’Europa ha sottoscritto un trattato di liberalizzazione commerciale molto simile anche strutturalmente al TTIP, facendo finta di non ricordare che come gli USA la Korea si è sottratta a gran parte delle convenzioni ILO e ONU. Imprese, sindacati e ONG che fanno parte dell’analogo organo creato per monitorare la sostenibilità sociale e ambientale del trattato UE-Korea, hanno protestato con la Commissione affinché avvii una procedura di infrazione contro la Korea per comportamento antisindacale, e ancora aspettano una risposta (http://goo.gl/82OLmh). Perché dovremmo pensare che gli USA, molto più potenti e contrattualmente forti si dovrebbero piegare alle nostre esigenze, considerando che sono tra i pochi Paesi che non si sono mai piegati a impegni obbligatori a salvaguardia della salute, o dell’ambiente come il Protocollo di Kyoto appena archiviato anche grazie alla loro ferma opposizione?
Il TTIP può produrre danni per la salute?
Faccio un solo esempio, basato sulla storia. Nel 1988 l’UE ha vietato l’importazione di carni bovine trattate con certi ormoni della crescita cancerogeni. Per questo è stata obbligata a pagare a USA e Canada dal Tribunale delle dispute dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) oltre 250 milioni di dollari l’anno di sanzioni commerciali nonostante le evidenze scientifiche e le tante vittime. Solo nel 2013 la ritorsione è finita quando l’Europa si è impegnata ad acquistare dai due concorrenti carne di alta qualità fino a 48.200 tonnellate l’anno, alla faccia del libero commercio. Sarà una coincidenza, ma in un documento congiunto dell’ottobre 2012 BusinessEurope e US Chamber of Commerce, le due più potenti lobby d’impresa delle due sponde dell’oceano, avevano chiesto ai propri Governi proprio di avviare una “cooperazione sui meccanismi di regolazione”, che consentisse alle imprese di contribuire alla loro stessa stesura (http://goo.gl/HlqhTc).
Esistono alternative al TTIP? A cosa potrebbero aspirare i cittadini del mondo afflitti dall’attuale crisi economica?
Da molti anni non solo movimenti, associazioni, reti sindacali ma anche istituzioni internazionali come FAO e UNCTAD, le agenzie ONU che lavorano su Agricoltura, Commercio e Sviluppo, richiamano l’attenzione sul fatto che rafforzare i mercati locali, con programmazioni territoriali regionali e locali più attente basate su quanto ci resta delle risorse essenziali alla vita e quanti bisogni essenziali dobbiamo soddisfare per far vivere dignitosamente più abitanti della terra possibili, potrebbe aiutarci ad uscire dalla crisi economica, ambientale, ma soprattutto sociale che stiamo vivendo, prevedibilmente, da tanti anni. Stiamo facendo finta di niente, continuando a percorrere strade, come quella della iperliberalizzazione forzata stile TTIP, che fanno male non solo al pianeta e alle comunità umane, ma allo stesso commercio che è in contrazione dal 2009 e non si sta più espandendo. Da quando la piena occupazione europea e statunitense, che con redditi veri e capienti sosteneva produzione e consumi globali, sono diventate un miraggio, anche la crescita dei popolatissimi Paesi emergenti, che hanno fatto la propria fortuna grazie alla commercializzazione del loro capitale ambientale e umano a prezzi stracciati e ad alti costi ambientali e sociali, non è riuscita più a sostenere il paradigma della crescita infinita che si è rivelato per quello che era: falso e insensato. I poveri, che crescono a vista d’occhio e devono lavorare oltre le 10 ore al giorno per un pugno di spiccioli, consumano prodotti poveri e sempre meno; i ricchi, che sono sempre più ricchi ma anche sempre meno, consumano tanto e malissimo, e non creano benessere diffuso. Abbiamo la grande opportunità di voltare pagina, e di tentare di dare a questo pianeta ancora un po’ di futuro, rimettendo al centro della politica i beni comuni e i diritti. Col TTIP, al contrario, ci chiuderemo le poche finestre di possibilità ancora aperte. Con la Campagna Stop TTIP, che raccoglie solo in Italia oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, cittadini e comunità, vogliamo fermare questa deriva e diffondere tutte le alternative possibili e più efficaci delle vecchie ricette fallimentari che continuiamo a subire.
(«AgoraVox», 28 agosto 2014; «Pagina3», 10 settembre 2014)

mercoledì 3 settembre 2014

M. Franzini, E. Granaglia, M. Raitano, Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?, ed. Il Mulino, 2014

È vero che i ricchi sono sempre esistiti, in tutte le epoche e a tutte le latitudini; è altrettanto vero che è parecchio strano che l’umanità si sia sempre data tanto da fare - nelle sue tante e diverse organizzazioni in società - per limitare l’uso personale della forza nei rapporti reciproci, e non si sia data alcun pensiero di limitare l’accumulazione della ricchezza. Stranezza che oggi può destare preoccupazione: perché l’accumulazione della ricchezza da parte dei ricchi (e ancor più da parte dei “super-ricchi”: quegli individui o quelle famiglie che si tirano a volte in ballo per paragonarne la ricchezza a quella di interi Stati nazionali) coincide spesso con l’impoverimento degli altri, fino a generare vere e proprie crisi del sistema economico-finanziario come quelle che ormai ben conosciamo e di cui siamo vittime. È giunto il momento di prendere piena consapevolezza che la concentrazione smisurata della ricchezza provoca problemi sociali proprio come l’uso arbitrario della violenza. Si tratta del solito moto d’invidia nei confronti di chi è più bravo o fortunato degli altri? Nient’affatto; è solo il tentativo di rispondere alla domanda (oggi imperativa): “È vero, come si dice, che i ricchi non fanno male a nessuno?”. O, in altri termini: “Dovremmo preoccuparci dei ricchi?”.