venerdì 31 luglio 2015

Multinazionali 1-Cittadini 0. Intervista a Guido Viale sul TTIP e il futuro dell'Europa

Guido Viale, leader nel ‘68 della protesta studentesca ed ex-dirigente di Lotta continua, è membro del Comitato tecnico-scientifico dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’Ambiente (ISPRA). Collabora con «Repubblica» e «il manifesto».

TTIP: che cos’è e perché continuiamo a parlarne?
Il TTIP è un trattato internazionale fra il governo degli Stati Uniti - in specie il Ministero per il Commercio Estero - e la Commissione Europea, in particolare un gruppo di lavoro a cui partecipano moltissimi rappresentanti della grande industria e della finanza europea. Le sue finalità ufficiali sono quelle di abbattere le barriere non-doganali del commercio fra le due sponde dell’Atlantico: in soldoni per “barriere non-doganali” si intendono i diritti, tutta la legislazione che riguarda la protezione dell’ambiente, della salute, della sicurezza e della stabilità del lavoro. Tali norme - in quanto comportano ovviamente dei costi - vengono considerate “ostacolo” alla libera circolazione delle merci - soprattutto perché la legislazione americana è molto più blanda di quella europea: si pensi ad esempio che mentre in Europa (pur con i dovuti distinguo) è in vigore il principio fondamentale di precauzione, per il quale la dimostrazione della non nocività di un nuovo prodotto da commercializzare ricade sull’azienda produttrice, negli Stati Uniti vige il principio contrario, per il quale soltanto l’autorità pubblica - magari su sollecitazione di singoli o di gruppi di cittadini - è tenuta a fare simili controlli atti a dimostrare la pericolosità di un prodotto che verrà poi eventualmente rimosso dalla circolazione. C’è anche un’altra questione
continua il professore:
il TTIP è un trattato bilaterale fra la UE e gli USA, che non sostituisce la precedente normativa dell’Organizzazione Mondiale per il Comercio, ma la integra e in certo modo la scavalca: è il tentativo - da parte degli Stati Uniti - di fare accordi ristretti con i suoi partner commerciali, onde evitare le complessità di trattati che coinvolgano tutti o quasi i Paesi del mondo (come, appunto, quelli all’interno dell’OMC). Questo trattato - gemello del TPP, relativo al sud-est asiatico (Cina esclusa, in evidente funzione anti-cinese) - ha anche lo scopo implicito di mettere in riga Paesi riluttanti ma dallo scarso potere commerciale.
Poi c’è la famigerata clausola sinteticamente denominata “ISDS”.
Sì, per la quale la risoluzione di un contenzioso tra uno Stato nazionale sovrano e una o più aziende multinazionali va affidato a una corte arbitrale di giudici privati - sostanzialmente avvocati dei grandi studi di diritto internazionale: in pratica, se una certa impresa ritiene che la legge di un certo Stato sia dannosa per il suo commercio, può rivolgersi a una corte per dirimere la disputa. Come a dire: le leggi degli Stati dovranno ricevere il nulla osta da parte delle aziende.
La clausola ISDS (Investor-State Dispute Settlement) assomiglia alla clausola di roll-back del famigerato AMI (Accordo Multilaterale sugli Investimenti) di qualche decennio fa. Solo che quello veniva imposto dagli Stati ricchi del Nord a quelli poveri del Sud. Il TTIP invece sembra un’imposizione degli USA ai loro “alleati” europei…
C’è una grossa disputa su questo punto: l’Unione Europea ricaverebbe dei vantaggi da questo accordo, o no? A questo proposito va sottolineato che perfino le previsioni più ottimistiche - verosimilmente false perché infondate - indicano come massimo per i vantaggi ricavabili dalla UE dall’approvazione di questo trattato… un aumento dello 0,6% del PIL. Cioè praticamente niente. Mentre gli svantaggi sono immediati e tangibili, e non riguardano le grandi industrie multinazionali che controllano il negoziato, bensì le piccole imprese, i loro lavoratori e i cittadini tutti. D’altro canto si tratta di qualcosa che conosciamo già: clausole come queste sono già presenti in altri trattati internazionali, come il NAFTA (tra Canada, Messico e USA), accordo che ha portato alla rovina di un milione e mezzi di contadini messicani, favorendo la commercializzazione del mais OGM d’oltrefrontiera. Insomma: non siamo di fronte a delle novità assolute, ma a qualcosa che rischia di rendere gli Stati nazionali ancora più sudditi dell’economia di quanto non siano già, e di dare un’ulteriore poderosa spallata ai già traballanti diritti del lavoro e dell’ambiente.
Quello che veniamo a sapere è frutto di fuga di notizie o dell’azione di Wikileaks: sembra di stare di fronte a segreti militari, anziché ad accordi economici. Siamo di fronte a una specie di guerra commerciale?
Potremmo dire di sì, anche se la guerra in atto non è tra USA e UE, bensì tra le grandi multinazionali commerciali e finanziarie (degli USA e dell’UE) contro le popolazioni dei relativi Paesi. La cosa ha un rilievo particolare per l’Europa, che ha una legislazione di maggior tutela delle popolazioni rispetto a quella americana. In generale, quasti negoziati stanno avvenendo nel segreto più assoluto: c’è addirittura una clausola che prescrive che le norme dell’accordo non vengano rese pubbliche entro 5 anni dalla data di sottoscrizione dell’accordo stesso. Se questo accordo venisse approvato, per i prossimi 5 anni il commercio internazionale si svolgerebbe secondo regole che nessun cittadino europeo o americano conoscerebbe e che potrebbero venir rivelate solo in caso dell’insorgere di un contenzioso. Siamo di fronte a una violazione clamorosa dei più elementari principi, non solo della democrazia, ma anche della decenza.
Ma se gli accordi verranno resi noti solo 5 anni dopo la sottoscrizione… a quali norme dovrebbe assoggettarsi un’azienda che intendesse commerciare con l’altro capo dell’oceano?
È un aspetto al contempo risibile e inquietante della questione: perché intanto le grosse aziende multinazionali direttamente coinvolte nella stesura del testo sono già ben al corrente di ciò di cui si sta parlando. Quelli che non ne sono al corrente sono i cittadini degli Stati che dovranno attenervisi, e perfino una gran parte dei loro organismi politici e istituzionali. Paradossalmente, uno Stato potrebbe venire a scoprire una certa clausola contrattuale… solo al momento di ricevere una citazione in giudizio da parte di un’impresa multinazionale. È evidente come questo trattato ponga le imprese multinazionali su di un piano più alto rispetto agli Stati nazionali. I quali, infatti, non sono direttamente coinvolti nella trattativa, che è invece affidata a un ristretto gruppo di persone nominate.
L’Italia, in particolare, avrebbe qualcosa da guadagnarci? O da temere?
L’Italia ha da temere in primo luogo per tutto quello che riguarda la produzione nel settore agroalimentare, perché la protezione dei marchi made in Italy, come ad esempio il parmigiano, passa per il rispetto dei protocolli di produzione tradizionali, che potrebbero venir alterati dalle richieste internazionali. La stessa Unione Europea, ad esempio, sta sottoponendo a procedura d’infrazione l’Italia su una questione del genere: perché pretende che i marchi relativi alla produzione di certi formaggi possano valere anche nel caso di utilizzo di latte condensato (anche d’importazione), mentre i marchi italiani (e la normativa che li tutela) prevedono l’utilizzo tassativo ed esclusivo di latte fresco. Ovviamente il settore alimentare non è l’unico a doversene preoccupare: in generale, sarebbero i diritti dei lavoratori i primi a risentirne. Perché diritti significa costi. E ciò che questo signori vogliono… è risparmiare. Ma anche il risparmio ha un costo. E sono sempre gli stessi a pagarlo.
La situazione attuale in Grecia può contribuire in qualche modo allo sviluppo dell’accordo?
La situazione è ambivalente. Da un lato la mancanza del supporto della Grecia potrebbe ostacolare il corso dell’accordo (rallentandolo, o addirittura fermandolo del tutto); d’altro canto, se la Grecia si rifiutasse di prendere parte ai negoziati (o uscisse tout court dalla UE) potrebbe rendere la vita più facile agli altri. Siamo in bilico.
Che cosa si può fare concretamente, come cittadini, per esprimere il proprio dissenso nei confronti del TTIP?
La prima cosa è informarsi, che è quello che cerchiamo di fare qui; c’è poi online una forte campagna contro l’approvazione del TTIP, che sta ottenendo dei risultati importanti, sia portando alla luce alcuni degli aspetti segreti del trattato, sia sollecitando l’opinione pubblica nei confronti dei partiti, al punto da costringere il Presidente del Parlamento Europeo a rinviare la votazione a tempo indeterminato, preoccupato di non avere la maggioranza sufficiente. La parola chiave è “partecipare”. In democrazia conta la voce di ciascuno di noi.
(«l'Altrapagina», luglio-agosto 2015)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano