Dando una rapida scorsa alle notizie in rete (idem sulla carta stampata) si nota facilmente che le due parole più gettonate in politica interna sono “lavoro” e “Costituzione”. Ma se si parla tanto delle due cose di cui più si sente la mancanza, qualche problema deve pur esserci. Al di là delle promesse e degli ottimismi del Presidente del consiglio di turno.
Per intenderci: di quale lavoro stiamo parlando? Di quello precario, a nero, a contratto, a ricatto (con minaccia di licenziamento in tronco), a ore, a termine, a progetto? È lavoro quello? Non dico che debba davvero nobilitarmi, come auspica il detto (e chi ci ha mai creduto?), ma almeno non dovrebbe avvilirmi (cosa che invece oggi fa). Per quanto riguarda la Costituzione italiana, stiamo messi un punto peggio: come ha spiegato brillantemente - con tutta la sintesi dell’evidenza - Gustavo Zagrebelsky, la Repubblica italiana è fondata sul lavoro; da esso seguono (devono seguire) le politiche economiche e da queste, infine, l’economia dello Stato. E qui non si può non notare come le cose vadano esattamente al contrario: l’economia detta legge agli Stati, che progettano e varano politiche economiche guardando trepidanti alla risposta dei mercati, le cui conseguenze ricadono a valle sul lavoro. La domanda è dunque: il lavoro è il dignitoso fondamento della vita degli italiani sancito dalla Costituzione, o è diventato qualcosa d’altro che lavoro non è più, anche se si continua a chiamarlo così?
A questa domanda provano a rispondere Carla Ponterio - magistrato dal 1987 - e Rita Sanlorenzo - giudice del lavoro da oltre vent’anni - nell’agile volume E lo chiamano lavoro… (ed. GruppoAbele). Il lavoro, che nell’antichità classica era disprezzato come qualcosa di innaturale (o quanto meno di plebeo, se non di barbaro e schiavizzante), è stato da un certo punto in poi (con la rivoluzione industriale e la filosofia liberale e comunista, da Locke fino a Gramsci) visto come la massima possibilità di autorealizzazione dello spirito umano. Oggi, alla fine di questo sogno di maturità e di indipendenza, il lavoro è qualcosa di deprezzato e da deprezzare, onde competere sempre più sul mercato globale. Come siamo arrivati a questo? E, soprattutto, come possiamo uscirne? In poco più di cento pagine le autrici rispondono anche a queste domande, sottolineando che i diritti del lavoro non vanno smantellati a favore dell’economia: se questa non può garantirli, è lei che andrebbe smantellata, non le garanzie. Perché i diritti non sono mai solo del lavoro, ma - tramite esso - dell’uomo. E l’uomo dovrebbe venir prima dei soldi. O no?
(«Il Caffè», 10 aprile 2015)
venerdì 17 aprile 2015
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