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venerdì 13 marzo 2015

P. Di Trapani, N. Vaccaro, Addiopizzo. La rivoluzione dei consumi contro la mafia, ed. Arkadia, 2014

Sono tante e diverse le odiose bugie che da sempre abbiamo sentito raccontare dalla mafia su se stessa. La più (tristemente) celebre è: “La mafia non esiste”, detta tra gli altri, anni e anni fa, dall’allora vescovo di Palermo. A ruota, segue: “In Sicilia tutto è mafia, quindi niente lo è; ‘mafia’ è solo il nome del modo di organizzarsi che i siciliani si sono scelti, per fare quello che lo Stato non sa o non vuole fare”. Poi c’è la convinzione che la mafia ci protegga, e questa protezione bisognerà pur pagarla qualcosa. Quello che forse non è abbastanza chiaro è che questa “protezione” si chiama racket, e che la quota pagata alla mafia si chiama pizzo: tu paghi dei mafiosi affinché questi ti proteggano dal male che essi stessi ti farebbero… se tu non pagassi. Allucinante cortocircuito al quale - con il controslogan: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità” - alcuni giovani palermitani si ribellano, animati dalla dignità, appunto, ma con un progetto preciso: costituire una rete di imprese che si rifiutino di pagare il pizzo, pubblicamente, e che si giovino del sostegno dei tanti cittadini aderenti all’iniziativa…
Il Comitato Addiopizzo, a dieci anni dalla sua nascita (giugno 2004), conta ben 850 esercizi commerciali e più di 10.000 consumatori responsabili, e ha già dato vita a due istituzioni satelliti, Libero Futuro e Professionisti Liberi, rispettivamente dedicate all’assistenza agli imprenditori vittime del racket e ai liberi professionisti. L’idea di fondo è costituire un forte gruppo di consumatori che siano determinati a consumare solo presso gli esercizi aderenti (quelli cioè che non pagano il pizzo); questi, a loro volta, ricevono dal gruppo il sostegno necessario ad avere la forza di ribellarsi. Un’idea vincente, a giudicare dai risultati, la cui storia è raccontata in questo libro snello e appassionato che ripercorre le tappe dell’avventura e delinea la prospettiva degli obiettivi prossimi. Contiene un inserto patinato a colori di otto pagine con le campagne del Comitato. Dedicato al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (il libro è stato stampato a giugno 2014) e ai valori della Costituzione italiana.


P. Di Trapani, N. Vaccaro, Addiopizzo. La rivoluzione dei consumi contro la mafia, ed. Arkadia, 2014.

(«Mangialibri», 13 marzo 2015)

giovedì 5 febbraio 2015

G. Starace, Vite violente. Psicoanalisi del crimine organizzato, ed. Donzelli, 2014

La camorra napoletana è una delle forme di criminalità organizzata più studiate e discusse. Le forme dell’organizzazione, i modi di operare, le ramificazioni d’affari, la genealogia… ogni aspetto è stato esaminato e sviscerato in libri, film, serie TV, perfino in certe canzoni. Ma quel che vale per gli aspetti collettivi, non vale allo stesso modo per quelli personali: la psicologia che sta dietro le intenzioni, i comportamenti, i fini di chi rende la camorra quel che è, è ancora in gran parte ignota. Questo perché mentre è facile ricostruire, a partire da quelle che sono le fonti principali d’informazione - gli atti giudiziari e i resoconti che su quegli atti si basano - le azioni esteriori dei gruppi, non lo è altrettanto per i moventi interiori che conducono non solo ai singoli gesti criminosi, ma all’appartenenza stabile a una struttura che ha vincoli precisi e non prende bene le defaillance
Tramite uno sforzo di immedesimazione nei soggetti osservati - a partire dalle fonti a disposizione: oltre al materiale giudiziario, le intercettazioni ambientali e le interviste - Giovanni Starace, docente di Psicologia dell’Università Federico II di Napoli, prova ad entrare nella mente e nel cuore dei camorristi, nel loro mondo fatto di “pochi pensieri, sempre uguali a se stessi negli anni” e di eccessi opposti, come la più sfrenata crudeltà e la più grande fedeltà. Un’opera di grande importanza per venir fuori dal tunnel (talvolta ineludibile) di quegli studi che parlano di fenomeni come questo senza averne alcuna conoscenza diretta, in una spirale autoreferenziale che non lambisce l’esperienza effettiva. Nella bella collana “Saggine”, rilegato a filo.


G. Starace, Vite violente. Psicoanalisi del crimine organizzato, ed. Donzelli, 2014.

(«Mangialibri», 5 gennaio 2015)

venerdì 26 dicembre 2014

La scelta libera

Lo scorso 1 dicembre, a Lusciano, è stato presentato il progetto di recupero di un terreno confiscato alla camorra. È una buona notizia, in generale; ed è ottima, in particolare, per ricordare (e magari prepararsi a festeggiare) il ventesimo anniversario della nascita dell’associazione antimafia “Libera”. Era il 1995 quando don Luigi Ciotti - prete torinese già noto per il suo impegno nell’ambito delle tossicodipendenze - cominciò a raccogliere attorno a sé alcuni esponenti di spicco della società civile - tra gli altri Luciano Violante, allora presidente della commissione parlamentare antimafia; Gian Carlo Caselli, magistrato; Rita Borsellino, sorella di Paolo - per dare vita a un’associazione che un anno dopo raccoglierà un milione di firme a favore della proposta di legge per la destinazione a fini sociali dei beni confiscati. Libera è oggi l’unica organizzazione non governativa italiana inclusa tra le prime cento ONG del mondo, venendo così a rappresentare - per riprendere le parole di Nando Dalla Chiesa nella sua introduzione a La scelta libera. Giovani nel movimento antimafia (ed. Gruppo Abele), scritto in collaborazione con Ludovica Ioppolo, Martina Mazzeo e Martina Panzarasa - “la più alta espressione del made in Italy sul piano civile”.
Di strada dunque ne è stata fatta tanta, ma molta resta ancora da fare, soprattutto se si pensa nell’ottica di debellare la piaga devastante della criminalità organizzata. Cosa che richiede non più solo l’impegno - per quanto eccellente e irrinunciabile - di pochi o molti volontari, ma il coinvolgimento dell’intera società. L’opposizione alla mafia dev’essere non più la scelta ponderata di chi ha affrontato il problema da vicino (magari suo malgrado), ma la scelta “di default” di ogni cittadino italiano. Questo libro - che oltre alla ricostruzione storica e a un’abbondantissima bibliografia finale presenta le varie sfaccettature e le prospettive del movimento - offre la testimonianza che l’impegno degli uomini di buona volontà può fare la differenza e che le cose possono essere davvero diverse se ci crediamo e, soprattutto, se ci lavoriamo. Con la nostra scelta libera.

(«Il Caffè», 19 dicembre 2014)

martedì 2 dicembre 2014

A. Colonna Vilasi, Mafie. Origini e sviluppo del fenomeno mafioso, ed. Dissensi, 2012

La criminalità organizzata. La camorra. La ’ndrangheta. La sacra corona unita. La triade cinese. La yakuza giapponese. La mafia russa. La mafia siciliana. L’ecomafia. Le mafie. A volte pare che più se ne parla, meno ci si capisce. Quali sono i limiti di ciascuna di esse? Quali le specificità? È un’invenzione recente (come sosteneva Giovanni Falcone, per il quale “la mafia, come tutti i fenomeni umani ha avuto un inizio e avrà una fine”), o è sempre esistita? È un marchio italiano (magari da esportare, come nel caso della mafia statunitense) o qualcosa che è presente in tutto il mondo, dovunque vi siano degli uomini… e dei soldi?

venerdì 28 novembre 2014

G. Plastino, Cosa Nostra Social Club. Mafia, malavita e musica in Italia, ed. Il Saggiatore, 2014

La “musica di malavita” - quella che a Napoli conosciamo dagli strazi vocali dei cosiddetti neomelodici - che da sempre ha accompagnato le gesta dei delinquenti, dai misfatti alla detenzione, è solo un sottogenere musicale al servizio delle mafie (che cercano così di sensibilizzare le masse alla propria mentalità deviata) o qualcosa di più complesso, con un’autonomia e una ricchezza musicale specifiche? La tentazione di generalizzare è forte; eppure non mancano controesempi in grado di mettere in forse la regola, come quella canzone di tanti anni fa (inserita appunto in un album del genere) che parla contro la ’ndrangheta. Come stanno realmente le cose? Si può emettere una condanna complessiva (che non sia sommaria)? Cosa dovremmo pensare della musica di malavita (e di quelli che la producono e che la ascoltano)?
Goffredo Plastino, esperto di musica popolare, è convinto che l’impatto delle canzoni sulle masse sia sopravvalutata (in quarta di copertina, al centro della pagina bianca, campeggia la seguente affermazione di Frank Zappa, riportata anche all’interno: “Ci sono più canzoni d’amore che su qualunque altro argomento; se le canzoni potessero farti fare qualcosa, allora ci ameremmo tutti”); ed è pur vero che gli U2 furono assolti nell’ambito del processo all’assassino che sosteneva di aver agito dopo l’ascolto della loro “Exit”. Ma è pur vero che l’istigazione alla violenza, ad esempio, funziona, anche se indirettamente e a distanza di tempo. Si può anche dire, con Plastino, che questo fenomeno musicale vada al di là dei meri testi per includere anche il ritmo, la melodia, l’esecuzione; sarebbe eccessivo tuttavia concluderne l’effetto della musica di malavita sul convincimento e comportamento di chi la ascolta sia poco o nullo, o casuale: è noto infatti che questa industria sia strettamente correlata a quella della criminalità organizzata e da essa tragga in gran parte ispirazione ed obiettivi. Sarà pure musica ben fatta. Ma sempre di mafia stiamo parlando.


G. Plastino, Cosa Nostra Social Club. Mafia, malavita e musica in Italia, ed. Il Saggiatore, 2014, pp. 193, euro 16.

(«Il Caffè», 21 novembre 2014)

G. Ausiello, L. Del Gaudio, Dentro la terra dei fuochi, ed. Il Mattino, 2014


Si chiama “terra dei fuochi” perché, a percorrerla sulle statali, si notano un po’ dappertutto piccoli e grandi roghi, fastidiosi per la vista ma forse innocui. Magari casuali. Ma non c’è niente di casuale. Quei roghi vengono accesi per bruciare le prove scottanti di crimini le cui conseguenze ricadono su tutti gli abitanti della Campania: quelle della distruzione illegale di rifiuti tossici, velenosi, altamente inquinanti, che andrebbero smaltiti in sicurezza e a norma di legge con procedimenti complessi e costosi. I soldi dunque sono alla base di tutto questo - quei soldi che entrano nelle tasche dei camorristi, in primo luogo, ma anche dei politici corrotti e dei funzionari pubblici conniventi, da parte di aziende che a loro volta ne risparmiano un bel po’ - ed escono, alla fin fine, dalle casse dello Stato (cioè dalle tasche di tutti gli italiani): sotto forma di cure per i tumori, che in Campania sembrano avere delle statistiche diverse dal resto d’Italia...

Come nuvole nere

Antonio Marino. Giovanni Pomponio. Pasquale Polverino. Raffaele Iozzino. Girolamo Tartaglione. Sono solo i primi cinque della lunga serie di protagonisti del volume Come nuvole nere. Vittime innocenti, scritto da Raffaele Sardo ed edito da Melampo (con la Prefazione di Paolo Siani). I quali, proprio come tutti gli altri in quella lunga serie, non potranno leggerlo. Perché sono tutti morti. Ammazzati. Dalla criminalità organizzata (diciamo così, perché a volte sembra che tante parole, magari più appropriate, siano abusate al punto che dire “camorra” o “sistema” fa pensare subito ai bestseller o alla televisione). In Campania.
Se vogliamo vivere meglio domani, dobbiamo (nel senso del dovere civico, ineludibile; ma anche della necessità) ricordare cosa è successo loro ieri. Se vogliamo imparare qualcosa dalla Storia, dobbiamo nutrirla delle tante microstorie che l’hanno fatta e che rischiano di venir dimenticate, sotto il peso della propaganda avversa, dell’anestesia del consumismo globale, della valanga di notizie che ogni giorno ci viene rovesciata addosso (e che a volte sembra voler esplicitamente indurci a dimenticare).
Come nuvole nere è un libro per la memoria. Non sulla memoria, che pur va custodita nei dettagli; ma per la memoria, affinché questa si eserciti non solo a ricordare, ma anche a farsi valere nell’ambito di un progetto comune di una società, la nostra, in cui c’è chi pare non farsi scrupolo di uccidere persone innocenti, se questo è utile ad arricchire coloro che vivono di criminalità. Perché c’è chi vive della morte degli altri; e pare che, tutto sommato, la cosa non indigni, non disgusti, non scandalizzi più neanche tanto.
Alffredo Paolella. Nicola Giacumbi. Pino Amato. Pasquale Russo. Mena Morlando. Sono troppi per poterli riportare tutti qui. Ma per ognuno di essi - dalla “ragazza che ballava di domenica” all’“uomo che viveva per la famiglia” - c’è in questo libro una storia da raccontare, da scoltare, da scoprire. Da non dimenticare.

(«Il Caffè», 21 novembre 2014)

venerdì 21 novembre 2014

G. Pascale, La camorra non esiste, ed. EIR, 2014

“La camorra non esiste”: lo stesso ritornello che per decenni abbiamo subito a proposito della mafia siciliana si presenta di nuovo a proposito della camorra campana (più propriamente napoletana e casertana) a più riprese, sentito in TV o letto in un libro o sul giornale. È vero, la camorra ha una struttura enormemente frammentata e priva di vertice. Ma basta questo a dire che l’enorme rete di estorsioni, connivenze, investimenti, e violenze di ogni genere sia il risultato casuale di individui tanto scellerati quanto isolati? Sembra assurdo - fino al ridicolo - eppure c’è chi ancora oggi non si scandalizzi di sostenerlo. Chi abita da queste parti - cioè appunto fra Napoli e Caserta - sa bene di cosa stiamo parlando: eppure pare che i primi reticenti sull’argomento siano proprio gli stanziali, dai quali è difficile cavare di bocca una sola parola perfino sul vicino di casa…

venerdì 12 settembre 2014

La mafia e i crimini ambientali

Il Rapporto Ecomafia 2014 (ed. Legambiente, 2014) non lascia dubbi: la mafia continua a realizzare profitti giganteschi (15 miliardi di euro solo nell’ultimo anno) tramite i cosiddetti “ecocrimini”, o crimini ambientali. Risultato: la nostra salute va a farsi benedire, l’economia reale si deprime, l’ambiente viene avvelenato e diventa sempre più inospitale e nocivo per chi ci vive. Grande protagonista di questo sfregio nazionale è non più tanto l’iniziativa diabolica di qualcuno che agisce isolato (per i cui reati attendiamo ancor oggi che il Senato si pronunci in maniera definitiva, spostandoli finalmente sul piano penale), ma un sistema di corruzione e connivenza che filtra e si dirama a più livelli nel tessuto sociopolitico del nostro Paese. Quasi 30.000 infrazioni accertate nel 2013: più di 3 all’ora. un numero da capogiro, soprattutto se si pensa che a questa statistica sfuggono tutte quelle di cui non si sa (ancora) nulla.
Che fare? È la domanda classica, ricorrente, nei casi come questo. Se lo domanda anche Annachiara Valle nel suo bel Santa malavita organizzata (ed. San Paolo), in cui - partendo dall’analisi del rapporto tra la ’ndrangheta calabrese e la Chiesa cattolica - approda a una conclusione amara ma dotata di un risvolto che lascia ben sperare:

mercoledì 11 giugno 2014

F. Picone, M. Diana, S. Tanzarella (a cura di), Amo il mio popolo e non tacerò. Docu-racconto su don Peppino Diana, ed. Di Girolamo, 2014

«Quando gli onesti cittadini hanno il coraggio di denunciare l’assenza dello Stato e la presenza dell’antistato, c’è chi inizia a strofinarsi la mano sulla coscienza, per quel poco che ne è rimasto. Ma esiste una seconda fase, ed è quella progettuale: creare una forza di opinione e di coscienza che, attraverso l’opera evangelizzante della Chiesa, maestra di opera non violenta, e la presenza di cristiani volontari, possa arrivare alle istituzioni e ai partiti politici per ricordare il ruolo etico sociale che la Chiesa, lo Stato e i partiti posseggono nei loro intenti di base, risvegliando nel cittadino il senso di speranza e della vita. Se la camorra ha assassinato il nostro paese, “Noi” lo si deve far risorgere, bisogna risalire sui tetti e riannunciare la “Parola di Vita”» (Don Peppino Diana, settembre 1991)

Tanta filosofia, teologia, pensiero politico e in definitiva “saggezza”, in queste pagine scritte dal parroco di Casal di Principe (CE) poco prima del suo assassinio. Tutto è rapporto di forze, e la sola preghiera non basta. Il cristianesimo, chiamato all’impegno politico e sociale dalla stessa Scrittura, dal dovere della testimonianza e soprattutto dal comandamento dell’amore, non può chiudersi al calduccio delle case o delle parrocchie, ma deve aprirsi ai venti della realtà; anche quando questa si fa bufera. Non servono eroismi isolati e clamorosi, ma l’impegno collettivo vòlto a modificare la mentalità, le abitudini della gente.

venerdì 14 febbraio 2014

O. Ingrascì, Confessioni di un padre, ed. Melampo, 2013

«Una simile, inedita sorpresa toccò Emilio nell’incontro con le proprie parole che, riportate in forma scritta, ricostruivano la sua biografia. Come se la narrazione delle sue azioni, prima e dopo la decisione di collaborare con la giustizia, gli avesse permesso di coglierne il senso. Per Emilio, fatti brutali, violenti, criminali accaduti tra azioni intenzionali e contesti accidentali, e la trasformazione identitaria avvenuta a seguito del pentimento, si sono composti in unità nell’incontro con la narrazione di sé da parte di un altro».

Emilio Di Giovine, boss della ‘ndrangheta arrestato dopo appena un mese dalla nascita della figlia, è nato e cresciuto come molti suoi “colleghi” in un ambiente edificato sulla violenza, rigidamente diviso tra “noi” (la famiglia, il clan, il gruppo d’affari) e “loro” (la polizia, i giudici, le istituzioni); dove il massimo disonore è l’infamità, cioè il mescolare le due cose. L’esperienza della paternità, tuttavia, gli mostra la realtà in una luce diversa e inaspettata ed Emilio - privato dei suoi affetti più cari - ne riscopre la necessità e l’urgenza. Esigenza da cui nasce - unitamente alla finalmente ritrovata capacità di fidarsi degli altri, in particolare dei magistrati che lo aiuteranno in questo percorso - la sua collaborazione con lo Stato. In Confessioni di un padre. Il pentito Emilio Di Giovine racconta la ‘ndrangheta alla figlia, Ombretta Ingrascì ricostruisce il cammino di una vita che - apparentemente frammentaria - riesce a ricomporsi e a dotarsi di un senso unitario nelle parole di un padre che racconta la propria esperienza a sua figlia, tra struggimento, consapevolezza e la speranza di una nuova possibilità di amare. Accattivante fin dalla copertina (a cura di Davide Tessera) il volume è aperto dalla Prefazione di Enzo Ciconte.


O. Ingrascì, Confessioni di un padre. Il pentito Emilio Di Giovine racconta la ‘ndrangheta alla figlia, ed. Melampo, 2013, pp. 181, euro 13.

(«Pagina3», 14 febbraio 2014; «AgoraVox», 1 marzo 2014)

domenica 20 maggio 2012

Il fascino discreto della mafia

Consideriamo generalmente un progresso il fatto che i cittadini non reagiscano ai soprusi facendosi giustizia da sé, ma delegando al potere pubblico della polizia e dei tribunali l’amministrazione dell’ordine costituito. Tanto che il termine “Far West” - luogo in cui ciascuno provvedeva da sé, con la propria pistola, a regolarsi i conti - viene usato con accezione dispregiativa, in senso di “selvaggio, caotico”.
Questo è chiaro. È meno chiaro però che non tutti la pensino così e che l’idea del singolo che si fa giustizia da sé in quanto è in grado di farlo - perché coraggioso, fiero, aitante - è ancora molto in voga (nonostante l’epoca cavalleresca sia tramontata da un pezzo) e conosce oggi una nuova stagione di celebrità, alimentata anche dallo spirito dei tempi, i cui modi di pensare, parlare, relazionarsi sono intrisi dei miti della forza, della ricchezza, del successo.
Lo spiega Iole Di Simone nel suo Il sistema culturale mafioso (ed. Bonanno, 2011): la cultura mafiogena, terreno su cui germoglia la malapianta mafiosa, è tutt’altro che estinta; in altre parole, la mafia continua a esistere perché continua a piacere. Il mafioso continua a essere visto da ampi strati della popolazione come colui che, provenendo dal popolo (cioè dal nulla), è riuscito a farsi strada (a “diventare qualcuno”). Anche se poi diventa proprio come quei potenti contro i quali inizialmente si è ribellato. Anche se poi usa il suo nuovo potere per opprimere gli indifesi (sulle cui spalle prospera).

Il 23 maggio 1992 il giudice Giovanni Falcone veniva ucciso dalla mafia. Un eroe da ricordare

L’autrice parte dall’analisi storica del termine “mafia”: usato per la prima volta in un documento del 1658 come soprannome di una strega (nel senso di arrogante e assetato di potere), il termine va via via assumendo una connotazione positiva. Così nell’800 lo si usa per le donne in riferimento alla bellezza e alla baldanza, finché il Pitré lo consacra con queste parole: «il mafioso non è un malandrino, è semplicemente un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso. La Mafia è coscienza della forza individuale, il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, ma sa farsi ragione da sé» (citato a p. 13).
Evidentemente nata in una cultura della sfiducia nei confronti di un potere statale ingiusto e vessatorio nei confronti dei poveri, la figura del mafioso viene letta alla luce di una saggezza popolare (criticabile ma non incomprensibile) per la quale «se i ricchi non fanno che rubare al povero, non è peccato se il povero ruba al ricco» (p. 112; sulla connessione mafia-cristianesimo si legga l’ottimo lavoro di Augusto Cavadi dal titolo Il Dio dei mafiosi, del 2009: http://goo.gl/67kfG).
È ovvio quindi (ma certe cose vanno ripetute fino alla noia e anche oltre, perché pare che non ci sia nulla di più difficile da realizzare di ciò che è necessario e urgente) che la lotta alla criminalità organizzata, problema di tutti i governi, presuppone uno Stato credibile e giusto, trasparente e in grado di far rispettare la legge, fondato su una società equa che abbia digerito i miti della forza, dell’avidità e della visibilità a tutti i costi e che li abbia espulsi definitivamente. Dobbiamo arrivare a disgustarci di queste cose; solo allora ci disgusteremo anche della mafia. Su questo insiste Di Simone: la mafia ce l’abbiamo perché la vogliamo e la vogliamo perché ci piace. Il fatto è che, come le sigarette, la mafia nuoce gravemente alla salute. Sarebbe ora di smettere.

(«Il Caffè», 19 maggio 2012)

domenica 17 ottobre 2010

Questioni da caffè


D’accordo, stracciamoci le vesti. La Direzione Distrettuale Antimafia ha arrestato per estorsione undici persone, presunti affiliati al clan Bidognetti, per aver costretto centinaia di titolari di bar e caffetterie (dell’agro aversano e del litorale domizio) ad acquistare una miscela di caffè da essi prodotta: il caffè “Nobis” (nome di uno degli arrestati).
Scandalizziamoci, e giustamente. Tuttavia, è una cosa che

domenica 19 settembre 2010

I. Sales, I preti e i mafiosi, ed. Baldini Castoldi Dalai, 2010


Accuse forti senza eufemismi di Isaia Sales in “I preti e i mafiosi” (Baldini Castoldi Dalai, 2010). La Chiesa cattolica ha fornito un grosso, insostituibile appoggio dottrinale alle mafie nel Sud Italia degli ultimi due secoli.
Al di là di ogni collaborazione diretta (che pur, in qualche caso, non è mancata).
“Le organizzazioni criminali di tipo mafioso avrebbero potuto ricoprire un ruolo plurisecolare nella storia meridionale e dell’intera nazione se, oltre alla connivenza di settori dello Stato e di parte consistente delle classi dirigenti locali, non avessero beneficiato del silenzio, della indifferenza, della svalutazione e anche del sostegno dottrinale di una teologia che trasforma degli assassini in pecorelle smarrite da recuperare piuttosto che da emarginare dalla Chiesa e dalla società?” si domanda il professore. Per concludere, subito dopo: “la risposta è no”. 
Paradosso di una organizzazione religiosa che è per suo stesso “statuto” radicalmente antiviolenta, ma che si presta ad una legittimazione teorica - diretta o indiretta - della violenza, in specie organizzata. Paradosso che - al cuore di una società, quella italiana, che la Chiesa “ce l’ha in casa” - non riguarda solo gli storici e i moralisti. Riguarda tutti.
Il dato di fatto innegabile e punto di partenza dell’indagine è che per più di un secolo e mezzo i mafiosi sono stati accettati come uomini credenti e devoti: ciò non può essere esclusivo merito loro. E del resto le prime condanne ufficiali della mafia da parte della Chiesa sono recentissime (tra le quali spicca quella di mons. Mariano Crociata, segretario generale della CEI, che risale all’anno scorso).
Ma c’è di più: la Chiesa sarebbe responsabile non solo ideologica, ma anche materiale dello sviluppo delle mafie (ancora una volta indirettamente), in quanto parte delle classi dirigenti meridionali coinvolte nella proprietà e nel controllo della terra (questione centrale per la mafia siciliana),oltre che come portatrice di una “teologia morale (severissimi con il peccato, indulgenti con il peccatore), che ha permesso a degli assassini di sentirsi quasi dei privilegiati, essendo pecorelle da recuperare”. C’è qualcosa di strano nella teologia morale del cattollicesimo se ancora oggi - come racconta l’autore - un uomo come don Ciotti (presidente dell’associazione antimafia “Libera”) si trova quotidianamente a trattare con confratelli che ritengono i pentiti di legge “degli infami”.
Un gran brutto affare che il professore affronta in maniera ampiamente documentata e scevra da sensazionalismi. Perché l’intento dell’opera non è puntare il dito contro (esercizio tanto facile e alla moda quanto sterile ed effimero), bensì evidenziare quanto sia urgente il compito di rivedere l’attuale mentalità religiosa e sociale, che ha permesso alle mafie - al di là delle intenzioni - di diventare quello che sono. La Chiesa, sottolinea Sales, è “una delle principali agenzie educative di massa”. Sarà pur vero che la “gente del Sud” è tradizionalmente omertosa; ma è anche vero che essa non è insensibile agli stimoli dell’educazione, soprattutto se fatta con gesti eloquenti (come quello, proposto dal docente, di negare la comunione ai mafiosi, come già si fa per i ben più miti e innocui divorziati).
I preti e i mafiosi è in ultima analisi un libro dalle cui tesi si può anche - qua e là o del tutto - dissentire; ma i cui spunti andrebbero approfonditi e trattati co la massima serietà. Una lettura interessante e istruttiva. Purtroppo.

martedì 15 dicembre 2009

Il fascino della ritualità. Intervista a don Luigi Merola, 6 dicembre 2009


). È autore del libro Forcella. Tra inclusione ed esclusione sociale, ed. Guida, Napoli 2007, riflessioni sulla delinquenza a Napoli maturate nel corso dei sette anni della sua esperienza pastorale come parroco di Forcella, a Napoli, dal 2000 al 2007. Per il suo impegno nella lotta alla camorra vive da sette anni sotto scorta.

Esistono aspetti del cattolicesimo (almeno di un certo modo di intenderlo) che sono congeniali alla mentalità camorristica?
No. La camorra subisce il fascino della ritualità e dell’iniziazione, ma ciò non c’entra niente con la fede cristiana. Si tratta semplicemente di superstizione, di idolatria: non può ritenersi devoto, cristiano, religioso, chi si macchia di reati come l’assassinio premeditato. C’è una incompatibilità di fondo. Credo inoltre che assistiamo oggi al tramonto della stessa “sacralità” del codice mafioso: le regole vanno indebolendosi (ad esempio, una volta era impensabile uccidere un prete; sappiamo purtroppo bene che oggi non è più così). Viene meno il rispetto per le regole e – di pari passo – viene meno la “rispettabilità” (ove mai questo termine potesse essere usato per delle organizzazioni criminali) della stessa camorra. Del resto, i successi che lo Stato sta conseguendo nella cattura di un gran numero di latitanti credo che attestino appunto questa generale défaillance dell’organizzazione.

Augusto Cavadi ha scritto di recente che «la mafia può attingere all’armamentario culturale cattolico con facilità perché esso – dopo duemila anni – è molto diverso rispetto al Vangelo cristiano delle origini». Concorda con questo severo giudizio?
Credo che basti guardare al lavoro svolto da tanti sacerdoti nelle zone più disastrate e vessate del mondo, alla loro testimonianza pagata spesso con la morte, per comprendere che le radici del Vangelo sono ben vive e presenti oggi, in mezzo a noi. Non nego che ci siano delle cosiddette “mele marce” anche nella Chiesa (come in tutte le organizzazioni umane), ma di qui a parlare di un tradimento del senso originario mi sembra ce ne corra. Dovremmo prendere le distanze dal qualunquismo che fa di tutta l’erba un solo fascio; credo anche che dovremmo cominciare a rispettare un po’ di più il buon lavoro che viene fatto da tanti (senza negare, lo ripeto, quello cattivo fatto da altri).

Che lavoro sta facendo la Chiesa oggi?
La Chiesa, oggi più sensibile che in passato al problema, comincia a condannare senza mezzi termini la camorra e a denunciare l’incompatibilità tra la mentalità camorristica e quella cristiana (come hanno fatto recentemente il vescovo di Napoli, card. Sepe, nonché il presidente della CEI, card. Bagnasco e il segretario della CEI, mons. Crociata). È in preparazione un documento – la cui uscita è prevista per il prossimo gennaio – proprio su questo tema. D’altra parte, è vero che per tanto tempo si sono amministrati sacramenti e impartite benedizioni a personaggi di smaccata appartenenza alle mafie, magari a fronte di donazioni generose (ma ovviamente frutto di attività criminali). Tuttavia oggi la Chiesa, oltre alle dichiarazioni pubbliche, sta cominciando a inserire delle riflessioni sulla criminalità organizzata anche nella formazione dei propri seminaristi: fondamentale per guidare l’azione cristiana dei futuri sacerdoti. Importante è però anche la formazione dei laici: sono ben pochi quelli che hanno letto la Bibbia e che possono aver le idee chiare su questi temi, sia dal punto di vista della morale sia da quello delle regole del vivere civile. La Chiesa mette oggi l’accento sulla “promozione umana”, sullo sviluppo della persona: è un’idea molto bella, portatrice di bene, un bene che vorrei facesse “rumore”, che si notasse, mentre a volte sembra che soprattutto al sud sia solo il male a fare rumore.
Un prete può accettare donazioni più o meno generose da persone o famiglie in odore di camorra, anche se non condannate dai tribunali civili?
Un prete conosce bene il suo territorio e sa perfettamente da chi si possono accettare donazioni e da chi invece bisogna rifiutarle con fermezza: rifiuto che serve a riaffermare con forza la propria posizione, ma anche ad invitare il malavitoso alla conversione, alla riflessione, al pentimento.

Molti giovani del Sud, soprattutto a causa della mancanza di lavoro, rischiano di essere avvicinati dalla camorra.
Delinquenti non si nasce; delinquenti si diventa. E lo si diventa in quei casi in cui la mancanza di opportunità incontra una fragilità personale e familiare che andrebbe invece sostenuta da un’opera di accoglienza e formazione, cristiana e civile, in grado di sottrarre manovalanza alla camorra e in grado di formare – come direbbe don Milani – “cittadini sovrani”.

Che invito vorrebbe fare a dei cristiani onesti e responsabili?
Inviterei a rispettare, oltre ai dieci comandamenti biblici, un’altra decina di “comandamenti civili”. Primo fra tutti (cito qui don Puglisi): «il cristiano deve “rompere le scatole”», non tacere, non essere connivente, ma testimone. Come testimone è stato appunto, e fino al martirio, don Pino Puglisi.

(«l'Altrapagina», n° 11, dicembre 2009)

Religiosità pagana. Intervista a Claudio Fava, 4 dicembre 2009


Claudio Fava, deputato europeo e coordinatore nazionale di Sinistra Democratica è oggi tra i promotori della lista e del progetto politico di Sinistra e Libertà. Giornalista professionista dal 1982, ha collaborato con il «Corriere della sera», «L’Espresso», «L’Europeo» e la RAI. Dal 1984, dopo l’uccisione del padre, ha assunto la direzione de «I Siciliani», laboratorio di una nuova cultura della legalità e dell’impegno antimafioso. È stato eletto per il 2009 dal settimanale inglese «European Voice» (del gruppo dell’Economist) “eurodeputato dell’anno”. Sito personale: http://www.claudiofava.it/.

Sappiamo di mafiosi che ostentano la loro religiosità e spesso invocano la benedizione di Dio sulle loro imprese criminali. Come si spiega a suo avviso questo fenomeno?
Con una interpretazione molto “di comodo” della religiosità, della fede. Con una idea molto strumentale del rapporto con Dio, come dire: se esiste, esiste soltanto in funzione dei propri bisogni, delle proprie necessità terrene. Se esiste, Dio deve limitarsi ad assolvere i peccatori, ad assistere benevolo a battesimi e cresime e a chiudere un occhio sulla bassa macelleria di cui i mafiosi si occupano. È un’idea rituale e feticista della religione che naturalmente – tranne pochi casi – serve soltanto a darsi una giustificazione, ma certo non è utile a costruire un rapporto di fede tra questi signori e ciò che si trova “oltre noi”. Penso però che anche la Chiesa abbia delle responsabilità in questo.

In che senso?
La Chiesa in passato ha tollerato, ha chiuso un occhio, spesso ha anche assunto atteggiamenti di “consociativismo culturale”: ricordo ad esempio che il cardinal Ruffini era tra coloro che sostenevano, a Palermo, che la Chiesa non doveva occuparsi di mafia, ma solo di salvare le anime perdute. Altri prelati palermitani, in tempi più recenti, hanno parlato della mafia negli stessi termini. Le prime parole di condanna sono giunte da Giovanni Paolo II, e solo dopo dieci dall’inizio del suo apostolato. C’è un ritardo culturale, direi anche imputabile alla prudenza della Chiesa nei confronti della mafia. È pur vero, d’altro canto, che esiste un movimento ecclesiale di base che dà una forte testimonianza e che ha avuto i suoi morti – pensiamo a don Giuseppe Diana o a don Pino Puglisi.

Ma questa pretesa religiosità della mafia è soltanto ipocrisia studiata ad arte, o c’è un fondo di sincerità?
Direi che c’è un fondo di sincerità unitamente a una base di forte strumentalità, come dicevo. Sincerità tuttavia legata anche a un modo un po’ pagano di vivere il rapporto con Dio e con la religione tipico soprattutto del Mezzogiorno di questo Paese. Penso ad esempio al miracolo della liquefazione del sangue di san Gennaro a Napoli: riscontriamo elementi di paganesimo nel nostro modo rituale e consequenziale di “guadagnarci” la benevolenza e la grazia di Dio. La lotta alla mafia ha bisogno di una nuova cultura, civile, morale e religiosa, che metta al centro l’impegno personale e collettivo di tutta la società, nessuno escluso.

Partendo da cosa?
Comincerei innanzitutto a parlare in termini di “noi” piuttosto che di “io”, per far capire che la lotta alla mafia non vive né di isolati eroismi né di atti di compiaciuto protagonismo, bensì delle capacità di un’azione congiunta e diffusa – come negli anni si è visto in più occasioni, anche con risultati importanti. La lotta alla mafia ha bisogno di schierare sulla stessa linea di impegno e di consapevolezza una fetta consistente della nostra società. Va da sé che qualcuno avrà più incarichi o responsabilità di altri; tuttavia, lasciarlo solo equivarrebbe a consegnarlo direttamente nelle mani di Cosa nostra.

Quindi la lotta per la legalità non riguarda solo lo Stato come istituzione?
C’è bisogno dell’apporto di tutta la società e dunque tra gli altri anche della Chiesa, in quanto appartiene alla società. C’è bisogno del contributo di tutti, sul piano culturale come su quello comunitario; pretendere che sia soltanto lo Stato a farsi carico dell’intera impresa, a prescindere dalle donne e dagli uomini che formano il corpo sociale è una pretesa eccessiva. Direi anzi una fuga più che una pretesa: c’è bisogno di una nazione capace di assumere su di sé il compito di questa lotta di libertà e di democrazia. Nessuno Stato da solo può reggere l’urto di un simile scontro.

(«l'Altrapagina», n° 11, dicembre 2009)

mercoledì 25 novembre 2009

Il Dio dei mafiosi. Intervista ad Augusto Cavadi


Il Dio dei mafiosi (ed. San Paolo, 2009) parte da una domanda semplice e dirompente: come è possibile che un uomo invochi su di sé la benedizione di Dio appena prima di accingersi a sciogliere nell’acido la sua vittima? La religiosità mafiosa rende problematica l’idea che abbiamo del cristianesimo e fa sorgere un inquietante sospetto: che il cristianesimo si mostri infine “adatto” ad assecondare una mentalità schizofrenica per la quale non è assurdo estorcere denaro e al contempo fare beneficenza, uccidere a sangue freddo ma non di venerdì, eseguire ogni sorta di imprese criminali e ringraziare Dio della loro riuscita.

Prof. Cavadi, in che senso e in che misura la mafia è un fenomeno “cristiano” e “mediterraneo”?
Vorrei fare due precisazioni che possono gettare luce su tutta la questione. La prima è che la mafia è un sistema di potere criminale: in quanto tale non è né 'cristiano' né 'mediterraneo'. Lo si trova infatti in contesti non-cristiani (come la Triade cinese o la Yakusa giapponese) e in contesti non-mediterranei (come la Mafia colombiana in America Latina). Esso però, a differenza di altre organizzazioni criminali solo apparentemente simili, cerca di darsi una identità culturale, anche per legittimarsi agli occhi delle istituzioni e dell'opinione pubblica. Così la mafia cerca di rubare simboli, credenze, massime di vita arraffando dove può: nel Meridione italiano ha trovato soprattutto il patrimonio liberal-borghese e la tradizione cattolica. Questo aggettivo mi aggancia alla seconda precisazione: la mafia può attingere all'armamentario culturale cattolico con facilità perché esso - dopo duemila anni - è molto diverso rispetto al vangelo cristiano delle origini. Due millenni fa, infatti, i boss avrebbero avuto difficoltà a strumentalizzare un messaggio di fratellanza, di giustizia, di rispetto del creato, di tenerezza verso i deboli...come quello annunziato da Gesù di Nazareth e custodito nei vangeli. Nel XX secolo, invece, i boss trovano una teologia 'cattolica' che, a mio avviso, rappresenta la caricatura e la deformazione della teologia cristiana evangelica originaria. Una teologia che non è certo mafiosa, ma che si presta troppo bene ad essere riciclata in ambito mafioso per i suoi tratti verticistici, autoritari, antidemocratici, dogmatici, familistici e così via.
Lei utilizza per la mafia gli aggettivi “nichilista”, “atea”, “politeista”, “religiosa”. Come trovano conciliazione tutti questi opposti? In cosa consiste la “teologia mafiosa”?
Per dire in breve ciò che ho cercato di documentare più articolatamente, penso che vada distinta l'apparenza dalla realtà sostanziale: apparentemente la teologia mafiosa è 'religiosa' al punto da non accontentarsi di un solo Dio ma di un pantheon dove Gesù, la Madonna, l'arcangelo Michele e san Padre Pio da Pietralcina convivono a parità di meriti e di ruoli; sostanzialmente, però, dietro questo velo ingannevole, la teologia mafiosa è atea e tendenzialmente nichilista. Vorrei subito precisare, a scanso di equivoci, che il fatto di essere atea e nichilistica non sarebbe di per sé disonorevole (si tratta infatti di posizioni teoreticamente rispettabili): disonorevole è il fatto di camuffarsi per spacciarsi come non-atea e non-nichilistica. In questo senso ritengo che un Messina Denaro che si proclama, nei suoi pizzini, ateo sia molto più onesto di un Provenzano che, proclamandosi credente e praticante, inganna gli altri e prima ancora sé stesso.
Lei scrive che la teologia ufficiale cattolica – con la sua enfasi sull’obbedienza da tributare alle autorità civili e religiose – è de-responsabilizzante al punto che l’omicida (sia esso il mafioso o il soldato) sente in coscienza che la colpa dell’omicidio va addebitata non a lui ma al suo mandante. Come andrebbe riformato questo aspetto della catechesi?
Se fosse solo un problema di catechesi, la situazione sarebbe seria ma non tragica. Tragica lo è perché, più radicalmente ancora, è un problema di dottrina ufficiale: è il Magistero stesso che, alla luce del vangelo e della esegesi più corretta, dovrebbe ridimensionare fortemente un ruolo che - a mio sommesso avviso - non gli viene attribuito da Gesù. La rivoluzionarietà del vangelo è nella convinta proclamazione che non ci sono in terra né padri né maestri; che siamo tutti fratelli e figli dell'Unico che ci trascende e ci abbraccia.
Ha scritto a chiare lettere che «la teologia cattolica non produce la mafia» (p. 142), ma non di meno che «la teologia para-mafiosa è prodotto e sintomo, oltre che concausa, di una Chiesa filo-mafiosa» (p. 188). Esiste dunque una Chiesa che opera a favore della mafia invece che contro di essa? E in che modo?
Non soltanto, in rari casi, abbiamo avuto preti a capo di cosche mafiose, ma molto più spesso abbiamo avuto e abbiamo preti che camminano a braccetto con mafiosi, con imprenditori collusi con la mafia, con politici condannati per favoreggiamento di mafiosi da tribunali statali dopo processi pubblici regolari. Questo è del tutto intollerabile e, sino a quando continuerà a registrarsi, la Chiesa cattolica consumerà nel Meridione un lento suicidio morale e materiale: si ridurrà a rifugio residuale di vecchiette credulone e di seminaristi ignorantelli.
Perché è così difficile mostrare e proclamare la lampante incompatibilità, teoretica ancor prima che etica, tra il comportamento mafioso e quello evangelico?
Difficile? Non penso. Basta aprire il vangelo e mettere il suo annunzio di vita, di solidarietà, di liberazione dalle ingiustizie con il codice culturale mafioso intriso di morte, di sfruttamento parassitario del lavoro degli onesti, di oppressione sistemica. Diversamente stanno le cose se il confronto non avviene fra il vangelo e la mentalità mafiosa, ma fra la mentalità cattolico-mediterranea e la mentalità mafiosa: in questo secondo caso, infatti, non c'è nessuna "incompatibilità", tanto meno "lampante". C'è una affinità imbarazzante, spiazzante. Scoraggiante. Sono cresciuto all'interno di diverse organizzazione cattoliche, svolgendo in alcune delle funzioni direttive di rilievo: non ho mai notato delle sostanziali differenze etiche rispetto ad altre organizzazioni civili meridionali intrise di mafiosità, di irrisione delle regole, di calpestamento dei diritti elementari della persona umana. Per decenni ho cercato di combattere, ma il giorno del mio trentatreesimo compleanno mi sono arreso: ho capito che se non cambia la dottrina teologica non potrà mai cambiare la prassi ecclesiale.
Il codice mafioso fonda la sua forza sull’accettazione acritica. Basterebbe che un “picciotto” leggesse con spirito critico una sola pagina del Vangelo per rendersi conto dell’impossibilità di mettere d’accordo il Padre e il padrino. Possiamo suggerire a una auspicata teologia critica antimafiosa l’inserimento di un undicesimo comandamento: “Tu penserai con la tua testa”?
L'idea è ottima. Se non ricordo male, una recente edizione del festival di Sanremo è stata vinta a sorpresa da una canzone che invitava a qualcosa di molto simile: pensa, prima di sparare pensa. Forse mi permetterei di considerare un'ipotesi: che non vada proposto come undicesimo comandamento, bensì come comandamento zero. Come fondamento - e soffio animatore - di ogni altro comandamento possibile. L'osservanza acritica di qualsiasi comandamento sfocia, inesorabilmente, nel fanatismo fondamentalista. Il senso critico, invece, se attraversa trasversalmente la fede e la morale, ne preserva la laicità autentica. Forse il cardinal Martini non intendeva cose molto diverse quando sosteneva che la differenza radicale non è tra chi crede e chi non crede, ma fra chi pensa e chi non pensa.

(«il Recensore.com», 25 novembre 2009, poi «l'Altrapagina», dicembre 2009)

lunedì 2 novembre 2009

Eroismo


La virtù eroica, tipica dell’eroe, è - secondo il dizionario Zingarelli - una forma di coraggio esercitata in forma eccezionale (nei due sensi: eccezionale quanto alla grandezza del coraggio, e anche quanto all’occasionalità della manifestazione). L’eroismo può essere il contenuto di un’azione, non di una vita intera; esso inerisce al singolo atto (che perciò viene chiamato “eroico”) e non è prerogativa di nessun mestiere o gruppo sociale. Professioni particolarmente esposte al rischio possono offrire a chi le pratica più occasioni eroiche di altre: non sempre il pompiere si lancia all’interno di una casa in fiamme per salvare delle persone, ma potrebbe accadergli da un momento all’altro, scenario che non si presenta invece al contabile di un’azienda (il quale non è tuttavia meno eroico quando si getta in mare rischiando la propria vita per salvarne un’altra). In conclusione, la “vita da pompiere” non è eroica in quanto tale, come non è eroica la morte di un pompiere nell’esercizio prezioso (ma mero) delle sue funzioni.

«Cosa Nostra ha condannato a morte l’Ufficiale dei Carabinieri. Quest’uomo doveva essere - nella migliore delle ipotesi - rapito, torturato e quindi ucciso. Cosa Nostra non dimentica. L’ha dimostrato con Falcone e Borsellino».
M. TORREALTA, Ultimo. Il capitano che arrestò Totò Riina, ed. Feltrinelli (dalla Prefazione di Ilda Boccassini)

Il capitano Ultimo è l’ufficiale dei carabinieri che ha catturato personalmente Totò Riina, al termine delle indagini della sua squadra - Crimor, dedita alla lotta alla criminalità organizzata. Delle imprese, dei metodi e dei successi suoi e della sua squadra si parla nel bel libro di Maurizio Torrealta, Ultimo. Il Capitano che arrestò Totò Riina, con la prefazione di Ilda Boccassini (ed. Feltrinelli). Si parla del lavoro di un reparto speciale dell’Arma - i cui membri si definiscono soldati, guerrieri di quella vera e propria guerra in atto con Cosa Nostra (p. 16) - che il rischio se lo va a cercare, seguendo le piste dei latitanti, effettuando pedinamenti ininterrotti per settimane, intrufolandosi nelle case dei superricercati per piazzare le microspie grazie alle quali, l’indomani, potrà essere spiccata l’accusa di associazione mafiosa. A rischio della vita, ovvio. Il rischio dei giudici Falcone e Borsellino - di cui molto si parla nel libro - del generale Dalla Chiesa e di tutti quelli che, per combattere la mafia, si lanciano in una lotta a due nella quale la sconfitta è definitiva, inappellabile e senza rivincita.
Il capitano Ultimo è un eroe? mi sono chiesto. Poiché non esistono eroi “in generale”, mi rispondo di no. Eroica può essere forse definita la cattura di Riina, che Ultimo affrontò corpo a corpo immobilizzandolo in una coperta di lana, prima di spingerlo nella volante. Tuttavia non è su questo che vorrei soffermarmi, ma su una notizia del 16 ottobre scorso: potrà sembrare incredibile, ma al capitano Ultimo è stata tolta la scorta. Senza motivo. Anche se in realtà, il motivo è più che evidente: la nostra epoca non ama l’eroismo vero. Preferisce far morire un po’ di gente, per lo più in maniera stupida e inconcludente, e organizzare poi una cerimonia di stato in cui si parli di sacrificio e, ovviamente, di eroismo. Una prece.

(«Il Caffè», 30 ottobre 2009)