Alcune delle cose che sentiamo ripetere spesso dai mezzi di comunicazione di massa sono palesemente false, lo sappiamo. Altre, invece, c’è bisogno di guardarle più da vicino per scoprirne l’infondatezza: è il caso ad esempio della cantilena per la quale la scienza sarebbe pura e disinteressata (come se non fosse fatta da uomini, basterebbe osservare), e del tutto aliena dagli interessi dell’industria. Al contrario i legami tra ricerca ed economia sono molto più antichi e solidi: lo sviluppo delle scienze bioetiche e quello del neoliberismo di stampo reaganiano, in particolare, sono nati insieme negli anni ’80 in base a una pianificazione politica deliberata. A noi, trent’anni dopo, non restano che i preoccupanti interrogativi a consuntivo di un’esperienza che ha fatto del superamento dei limiti e dei confini (primo fra tutti quello della vita, resa ormai soggetta alla proprietà e alla mercificazione) il suo vessillo: dov’è che finisce la (ri)produzione e inizia l’invenzione tecnologica? Cosa ne è qui dell’uomo? Si può brevettare la vita, e con quali conseguenze?
Melinda Cooper, ricercatrice presso l’Università di Sydney, parte dalla riflessione di Foucault sul neoliberismo e sul welfare state per mettere in luce anzitutto il rapporto delle recenti teorie neoliberali sull’accumulazione e quelle biologiche su crescita, complessità ed evoluzione; spingendosi poi a parlare di AIDS e industria farmaceutica, della bioeconomia al servizio della guerra e dell’ingegneria per la produzione di organi. Con una Prefazione della curatrice, Angela Balzano (che in più intervista l’autrice in apertura) e una Postfazione di Rosa Braidotti.
M. Cooper, La vita come plusvalore, ed. Ombre corte, 2014, pp. 155, euro 15.
(«Mangialibri», 28 ottobre 2014; «Pagina3», 5 novembre 2014)
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