Che fare? È la domanda classica, ricorrente, nei casi come questo. Se lo domanda anche Annachiara Valle nel suo bel Santa malavita organizzata (ed. San Paolo), in cui - partendo dall’analisi del rapporto tra la ’ndrangheta calabrese e la Chiesa cattolica - approda a una conclusione amara ma dotata di un risvolto che lascia ben sperare: poiché è ormai chiaro che le mafie, per funzionare, hanno bisogno dell’appoggio delle masse (ecco perché fanno tanta mostra della loro “religiosità” nella pubblica piazza), riuscire a fare in modo che le masse ne aborriscano la condotta, significa in sostanza disarmarle. Come si fa? “Purificando le feste” oltre a santificarle: escludendo questi soggetti da cerimonie, processioni, eventi; magari, cominciando a negare pubblicamente i sacramenti a tutti quelli che, a qualunque titolo, marcino nei ranghi delle mafie. Niente più funerali religiosi a nessuno di loro (e non soltanto a quelli che “muoiono con la pistola in mano”). Si dica chiaro e tondo da tutti gli altari, in tutte le omelie, che i mafiosi «esprimono in mezzo a noi il potere di Satana», come diceva don Italo Calabrò alla folla nella piazza di Lazzaro, frazione di Motta San Giovanni (Reggio Calabria) nel 1984. La Chiesa cattolica - che ormai da almeno trent’anni (dalla data cioè della visita di Giovanni Paolo II, che non esitò a parlare apertamente di «mafia») si è schierata con decisione contro le mafie - ha una missione importante in quest’ambito, come ricorda mons. Bregantini nella sua ottima Postfazione. Un lavoro non facile, ma che autorizza a sperare bene.
(«AgoraVox», 1 settembre 2014; «Pagina3», 12 settembre 2014)
