mercoledì 25 novembre 2009

Il Dio dei mafiosi. Intervista ad Augusto Cavadi

Il Dio dei mafiosi (ed. San Paolo, 2009) parte da una domanda semplice e dirompente: come è possibile che un uomo invochi su di sé la benedizione di Dio appena prima di accingersi a sciogliere nell’acido la sua vittima? La religiosità mafiosa rende problematica l’idea che abbiamo del cristianesimo e fa sorgere un inquietante sospetto: che il cristianesimo si mostri infine “adatto” ad assecondare una mentalità schizofrenica per la quale non è assurdo estorcere denaro e al contempo fare beneficenza, uccidere a sangue freddo ma non di venerdì, eseguire ogni sorta di imprese criminali e ringraziare Dio della loro riuscita.

Prof. Cavadi, in che senso e in che misura la mafia è un fenomeno “cristiano” e “mediterraneo”?
Vorrei fare due precisazioni che possono gettare luce su tutta la questione. La prima è che la mafia è un sistema di potere criminale: in quanto tale non è né 'cristiano' né 'mediterraneo'. Lo si trova infatti in contesti non-cristiani (come la Triade cinese o la Yakusa giapponese) e in contesti non-mediterranei (come la Mafia colombiana in America Latina). Esso però, a differenza di altre organizzazioni criminali solo apparentemente simili, cerca di darsi una identità culturale, anche per legittimarsi agli occhi delle istituzioni e dell'opinione pubblica. Così la mafia cerca di rubare simboli, credenze, massime di vita arraffando dove può: nel Meridione italiano ha trovato soprattutto il patrimonio liberal-borghese e la tradizione cattolica. Questo aggettivo mi aggancia alla seconda precisazione: la mafia può attingere all'armamentario culturale cattolico con facilità perché esso - dopo duemila anni - è molto diverso rispetto al vangelo cristiano delle origini. Due millenni fa, infatti, i boss avrebbero avuto difficoltà a strumentalizzare un messaggio di fratellanza, di giustizia, di rispetto del creato, di tenerezza verso i deboli...come quello annunziato da Gesù di Nazareth e custodito nei vangeli. Nel XX secolo, invece, i boss trovano una teologia 'cattolica' che, a mio avviso, rappresenta la caricatura e la deformazione della teologia cristiana evangelica originaria. Una teologia che non è certo mafiosa, ma che si presta troppo bene ad essere riciclata in ambito mafioso per i suoi tratti verticistici, autoritari, antidemocratici, dogmatici, familistici e così via.
Lei utilizza per la mafia gli aggettivi “nichilista”, “atea”, “politeista”, “religiosa”. Come trovano conciliazione tutti questi opposti? In cosa consiste la “teologia mafiosa”?
Per dire in breve ciò che ho cercato di documentare più articolatamente, penso che vada distinta l'apparenza dalla realtà sostanziale: apparentemente la teologia mafiosa è 'religiosa' al punto da non accontentarsi di un solo Dio ma di un pantheon dove Gesù, la Madonna, l'arcangelo Michele e san Padre Pio da Pietralcina convivono a parità di meriti e di ruoli; sostanzialmente, però, dietro questo velo ingannevole, la teologia mafiosa è atea e tendenzialmente nichilista. Vorrei subito precisare, a scanso di equivoci, che il fatto di essere atea e nichilistica non sarebbe di per sé disonorevole (si tratta infatti di posizioni teoreticamente rispettabili): disonorevole è il fatto di camuffarsi per spacciarsi come non-atea e non-nichilistica. In questo senso ritengo che un Messina Denaro che si proclama, nei suoi pizzini, ateo sia molto più onesto di un Provenzano che, proclamandosi credente e praticante, inganna gli altri e prima ancora sé stesso.
Lei scrive che la teologia ufficiale cattolica – con la sua enfasi sull’obbedienza da tributare alle autorità civili e religiose – è de-responsabilizzante al punto che l’omicida (sia esso il mafioso o il soldato) sente in coscienza che la colpa dell’omicidio va addebitata non a lui ma al suo mandante. Come andrebbe riformato questo aspetto della catechesi?
Se fosse solo un problema di catechesi, la situazione sarebbe seria ma non tragica. Tragica lo è perché, più radicalmente ancora, è un problema di dottrina ufficiale: è il Magistero stesso che, alla luce del vangelo e della esegesi più corretta, dovrebbe ridimensionare fortemente un ruolo che - a mio sommesso avviso - non gli viene attribuito da Gesù. La rivoluzionarietà del vangelo è nella convinta proclamazione che non ci sono in terra né padri né maestri; che siamo tutti fratelli e figli dell'Unico che ci trascende e ci abbraccia.
Ha scritto a chiare lettere che «la teologia cattolica non produce la mafia» (p. 142), ma non di meno che «la teologia para-mafiosa è prodotto e sintomo, oltre che concausa, di una Chiesa filo-mafiosa» (p. 188). Esiste dunque una Chiesa che opera a favore della mafia invece che contro di essa? E in che modo?
Non soltanto, in rari casi, abbiamo avuto preti a capo di cosche mafiose, ma molto più spesso abbiamo avuto e abbiamo preti che camminano a braccetto con mafiosi, con imprenditori collusi con la mafia, con politici condannati per favoreggiamento di mafiosi da tribunali statali dopo processi pubblici regolari. Questo è del tutto intollerabile e, sino a quando continuerà a registrarsi, la Chiesa cattolica consumerà nel Meridione un lento suicidio morale e materiale: si ridurrà a rifugio residuale di vecchiette credulone e di seminaristi ignorantelli.
Perché è così difficile mostrare e proclamare la lampante incompatibilità, teoretica ancor prima che etica, tra il comportamento mafioso e quello evangelico?
Difficile? Non penso. Basta aprire il vangelo e mettere il suo annunzio di vita, di solidarietà, di liberazione dalle ingiustizie con il codice culturale mafioso intriso di morte, di sfruttamento parassitario del lavoro degli onesti, di oppressione sistemica. Diversamente stanno le cose se il confronto non avviene fra il vangelo e la mentalità mafiosa, ma fra la mentalità cattolico-mediterranea e la mentalità mafiosa: in questo secondo caso, infatti, non c'è nessuna "incompatibilità", tanto meno "lampante". C'è una affinità imbarazzante, spiazzante. Scoraggiante. Sono cresciuto all'interno di diverse organizzazione cattoliche, svolgendo in alcune delle funzioni direttive di rilievo: non ho mai notato delle sostanziali differenze etiche rispetto ad altre organizzazioni civili meridionali intrise di mafiosità, di irrisione delle regole, di calpestamento dei diritti elementari della persona umana. Per decenni ho cercato di combattere, ma il giorno del mio trentatreesimo compleanno mi sono arreso: ho capito che se non cambia la dottrina teologica non potrà mai cambiare la prassi ecclesiale.
Il codice mafioso fonda la sua forza sull’accettazione acritica. Basterebbe che un “picciotto” leggesse con spirito critico una sola pagina del Vangelo per rendersi conto dell’impossibilità di mettere d’accordo il Padre e il padrino. Possiamo suggerire a una auspicata teologia critica antimafiosa l’inserimento di un undicesimo comandamento: “Tu penserai con la tua testa”?
L'idea è ottima. Se non ricordo male, una recente edizione del festival di Sanremo è stata vinta a sorpresa da una canzone che invitava a qualcosa di molto simile: pensa, prima di sparare pensa. Forse mi permetterei di considerare un'ipotesi: che non vada proposto come undicesimo comandamento, bensì come comandamento zero. Come fondamento - e soffio animatore - di ogni altro comandamento possibile. L'osservanza acritica di qualsiasi comandamento sfocia, inesorabilmente, nel fanatismo fondamentalista. Il senso critico, invece, se attraversa trasversalmente la fede e la morale, ne preserva la laicità autentica. Forse il cardinal Martini non intendeva cose molto diverse quando sosteneva che la differenza radicale non è tra chi crede e chi non crede, ma fra chi pensa e chi non pensa.

(«il Recensore.com», 25 novembre 2009, poi «l'Altrapagina», dicembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano