martedì 15 dicembre 2009

Il fascino della ritualità. Intervista a don Luigi Merola, 6 dicembre 2009

Don Luigi Merola è oggi Presidente della Fondazione «’a voce d’’e ccreature» (http://www.avocedecreature.it). È autore del libro Forcella. Tra inclusione ed esclusione sociale, ed. Guida, Napoli 2007, riflessioni sulla delinquenza a Napoli maturate nel corso dei sette anni della sua esperienza pastorale come parroco di Forcella, a Napoli, dal 2000 al 2007. Per il suo impegno nella lotta alla camorra vive da sette anni sotto scorta.

Esistono aspetti del cattolicesimo (almeno di un certo modo di intenderlo) che sono congeniali alla mentalità camorristica?
No. La camorra subisce il fascino della ritualità e dell’iniziazione, ma ciò non c’entra niente con la fede cristiana. Si tratta semplicemente di superstizione, di idolatria: non può ritenersi devoto, cristiano, religioso, chi si macchia di reati come l’assassinio premeditato. C’è una incompatibilità di fondo. Credo inoltre che assistiamo oggi al tramonto della stessa “sacralità” del codice mafioso: le regole vanno indebolendosi (ad esempio, una volta era impensabile uccidere un prete; sappiamo purtroppo bene che oggi non è più così). Viene meno il rispetto per le regole e – di pari passo – viene meno la “rispettabilità” (ove mai questo termine potesse essere usato per delle organizzazioni criminali) della stessa camorra. Del resto, i successi che lo Stato sta conseguendo nella cattura di un gran numero di latitanti credo che attestino appunto questa generale défaillance dell’organizzazione.

Augusto Cavadi ha scritto di recente che «la mafia può attingere all’armamentario culturale cattolico con facilità perché esso – dopo duemila anni – è molto diverso rispetto al Vangelo cristiano delle origini». Concorda con questo severo giudizio?
Credo che basti guardare al lavoro svolto da tanti sacerdoti nelle zone più disastrate e vessate del mondo, alla loro testimonianza pagata spesso con la morte, per comprendere che le radici del Vangelo sono ben vive e presenti oggi, in mezzo a noi. Non nego che ci siano delle cosiddette “mele marce” anche nella Chiesa (come in tutte le organizzazioni umane), ma di qui a parlare di un tradimento del senso originario mi sembra ce ne corra. Dovremmo prendere le distanze dal qualunquismo che fa di tutta l’erba un solo fascio; credo anche che dovremmo cominciare a rispettare un po’ di più il buon lavoro che viene fatto da tanti (senza negare, lo ripeto, quello cattivo fatto da altri).

Che lavoro sta facendo la Chiesa oggi?
La Chiesa, oggi più sensibile che in passato al problema, comincia a condannare senza mezzi termini la camorra e a denunciare l’incompatibilità tra la mentalità camorristica e quella cristiana (come hanno fatto recentemente il vescovo di Napoli, card. Sepe, nonché il presidente della CEI, card. Bagnasco e il segretario della CEI, mons. Crociata). È in preparazione un documento – la cui uscita è prevista per il prossimo gennaio – proprio su questo tema. D’altra parte, è vero che per tanto tempo si sono amministrati sacramenti e impartite benedizioni a personaggi di smaccata appartenenza alle mafie, magari a fronte di donazioni generose (ma ovviamente frutto di attività criminali). Tuttavia oggi la Chiesa, oltre alle dichiarazioni pubbliche, sta cominciando a inserire delle riflessioni sulla criminalità organizzata anche nella formazione dei propri seminaristi: fondamentale per guidare l’azione cristiana dei futuri sacerdoti. Importante è però anche la formazione dei laici: sono ben pochi quelli che hanno letto la Bibbia e che possono aver le idee chiare su questi temi, sia dal punto di vista della morale sia da quello delle regole del vivere civile. La Chiesa mette oggi l’accento sulla “promozione umana”, sullo sviluppo della persona: è un’idea molto bella, portatrice di bene, un bene che vorrei facesse “rumore”, che si notasse, mentre a volte sembra che soprattutto al sud sia solo il male a fare rumore.
Un prete può accettare donazioni più o meno generose da persone o famiglie in odore di camorra, anche se non condannate dai tribunali civili?
Un prete conosce bene il suo territorio e sa perfettamente da chi si possono accettare donazioni e da chi invece bisogna rifiutarle con fermezza: rifiuto che serve a riaffermare con forza la propria posizione, ma anche ad invitare il malavitoso alla conversione, alla riflessione, al pentimento.

Molti giovani del Sud, soprattutto a causa della mancanza di lavoro, rischiano di essere avvicinati dalla camorra.
Delinquenti non si nasce; delinquenti si diventa. E lo si diventa in quei casi in cui la mancanza di opportunità incontra una fragilità personale e familiare che andrebbe invece sostenuta da un’opera di accoglienza e formazione, cristiana e civile, in grado di sottrarre manovalanza alla camorra e in grado di formare – come direbbe don Milani – “cittadini sovrani”.

Che invito vorrebbe fare a dei cristiani onesti e responsabili?
Inviterei a rispettare, oltre ai dieci comandamenti biblici, un’altra decina di “comandamenti civili”. Primo fra tutti (cito qui don Puglisi): «il cristiano deve “rompere le scatole”», non tacere, non essere connivente, ma testimone. Come testimone è stato appunto, e fino al martirio, don Pino Puglisi.

(«l'Altrapagina», n° 11, dicembre 2009)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano