Londra, 1940. I nazisti stanno preparando l’invasione della Gran Bretagna e tra gli inglesi ferve la preparazione della difesa, per quanto disperata: non saranno pochi piloni di cemento buttati in mezzo alla strada a sbarrare l’avanzata del nemico, né quel paio di mitragliatrici che, sole, si ritrovano per le mani. Tutto fa presagire una catastrofe. Ma la tragedia del dottor Edward Haggard - chirurgo un tempo dalle brillanti prospettive ospedaliere, che ha poi ripiegato sulla professione del medico condotto - è iniziata molti anni prima, quando ha perso il grande amore della sua vita, in maniera inaspettata e brutale. Ma l’aveva mai avuto veramente quell’amore, così come avrebbe voluto? Anche se si sa che certe cose non si possono avere - quando una donna è sposata, il marito tende a tenersela stretta e può arrivare a fare letteralmente di tutto per riuscirci - questo non placa la sofferenza. E nemmeno quel dolore nella gamba, onnipresente e lancinante, a cui ha dato il nome di Spike. È in mezzo a quel dolore che si presenta da lui un giovane dal nome caro e sintomatico: James Vaughan. Ma la cosa più impressionante non è il suo nome, bensì il suo aspetto: guardarlo è come vedere quella donna - la sua donna - ritornare dall’oltretomba per fare visita proprio a lui...
Racconto in prima persona da parte del dottor Haggard - qui, come in Grottesco http://www.mangialibri.com/libri/grottesco, la condizione di invalido del narratore dipende da un evento interno alla storia, che il lettore viene a conoscere solo nella seconda metà - medico interamente concentrato su se stesso, sul suo male e sulla sua visione a senso unico delle cose; nella quale non c’è posto per i pensieri, le aspirazioni, i sentimenti degli altri, fino al punto di negarne ogni evidenza. Tanto da voler vedere per forza in quel James di cui si sente ingiustamente il padre, una patologia inesistente di cui il giovane nega ogni sintomo, che ha l’unico scopo di inverare ai suoi stessi occhi la sua più grande ossessione: quella della sua amante che - reincarnatasi in qualche modo e in qualche misura in quel figlio - viene a offrirgli una seconda possibilità di fare le cose per il meglio e, forse, ricevere un’assoluzione per quelle irrimediabilmente fallite. È questa la vera morbosità di un testo - altro che il “morbo” che il protagonista vorrebbe a tutti i costi vedere nel fisico del ragazzo. Tratto caratteristico di tutta l’opera dell’autore, che in altri casi ha attratto l’attenzione di un regista come Cronenberg (come in Spider, poi diventato un film). Probabilmente non il migliore romanzo di McGrath, il quale tuttavia conferma il suo geniale talento nel riuscire a sviluppare storie dense e appassionanti praticamente dal nulla.
Patrick McGrath, Il morbo di Haggard, ed. Adelphi, 1999.
(«Mangialibri», 30 ottobre 2017)
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