martedì 28 febbraio 2017

Cattiva maestra globalizzazione. Attualità del pensiero di Ivan Illich


La globalizzazione è una cattiva educatrice. Infatti ogni cambiamento negli assetti economici, politici, sociali all’interno delle nazioni e nei rapporti fra di esse genera allo stesso tempo delle ricadute sul piano antropologico; alterando dunque non solo la vita degli uomini e dei popoli, ma finanche il loro modo di intendere se stessi e di percepire la realtà. Prendiamo qui in esame brevissimamente, ai fini dell’immediatezza, due questioni ampiamente dibattute.
La prima. La globalizzazione propone all over the world un mercato unico (quello globale, appunto), un’unica forma di produzione e di scambio (quella del “capitalismo egoista”), un unico tipo di organizzazione politica (quello della democrazia parlamentare), un unico stile di vita (quello del consumismo edonistico di stampo statunitense). Si può pensarla come si vuole al riguardo (e ci si potrebbe spingere lontano con le analisi della filosofia interculturale sulla Torre di Babele), ma il punto è che, in questo, la globalizzazione si comporta al contrario di come farebbe il buon padre di famiglia: il quale non imporrebbe una educazione unica a tutti i suoi figli, ma la taglierebbe su misura delle esigenze e delle inclinazioni dei singoli. Quello che succede oggi è che sono i singoli (in realtà si tratta di moltitudini, di intere culture) a doversi conformare: presupposto per creare non un livello omogeneo di conformità (nessuno può deformare abbastanza se stesso da rendersi conforme a qualcosa che non gli è connaturato; soprattutto in una condizione nella quale si è costretti continuamente a competere per restare a galla), bensì masse di disadattati che non riusciranno a integrarsi mai.
La seconda. Con il diminuire delle occasioni concrete di impiego, va affermandosi la convinzione che la vita non sia (più) qualcosa da progettare e da realizzare passo dopo passo (solo vent’anni fa si parlava di “costruire” la propria carriera, la propria professionalità e anche la proprio personalità): oggi la vita la si intende piuttosto come un mordi-e-fuggi, un’occasione da cogliere al volo, qualcosa dove non serve tanto affidarsi alle proprie competenze, quanto alla fortuna. Di pari passo, ecco che aumenta la diffusione dei giochi d’azzardo a tutti i livelli – in tabaccheria, in internet, nelle tante sale per le scommesse o per il bingo sul territorio. Non ci sarebbe neanche bisogno di spiegare quanto questo sia contrario a qualunque idea di educazione; se non fosse per il fatto che la propaganda mette l’accento, negando l’evidenza, proprio sulla responsabilità del singolo: “Non è il lavoro a scarseggiare, sei tu che non riesci a tenertelo”. Perché non sei abbastanza formato, o flessibile, e così via. (Paradosso sdoganato tutte le sere in televisione nell’ambito di trasmissioni come quella celeberrima dei pacchi: dove il giocatore non ha nessun’altra possibilità di determinare la vittoria se non affidarsi al cieco caso; ciò non di meno, il conduttore, ogni volta che le cose vanno male, sentenzia: “Hai sbagliato!” “Dovevi pensarci meglio!” “Sei stato troppo impulsivo!” come se davvero avesse potuto farci qualcosa. E il fatto che nessun concorrente lo faccia notare… la dice lunga su quanto il meccanismo – per quanto intrinsecamente assurdo – abbia fatto presa). Si vorrebbe rispondere qui con le voci dei giovani che – dopo essere saltellati fra stage e corsi di formazione fin oltre i trent’anni – non sanno proprio più dove sbattere la testa e non fanno che domandarsi: “Dove ho sbagliato?” La globalizzazione non risponde. Qualunque buon padre di famiglia, invece, lo farebbe.
Ivan Illich, pensatore austriaco scomparso nel 2002, noto soprattutto per i suoi trattati sociologici – tra i quali il caposaldo Nemesi medica – ha riflettuto su questi temi in anticipo sul nostro tempo, e ha ripensato la società moderna, e l’istruzione in particolare, dal punto di vista di chi la subisce. Di chi ne paga il prezzo. Di chi, in un modo o nell’altro, e a dispetto di tutti gli slogan, ne resta fuori. Si è messo nei panni del buon padre di famiglia: che si preoccupa di tutti i suoi figli. Non solo di quelli a cui va bene, ma anche e soprattutto di quelli a cui va male, quelli che gli altri chiamano “perdenti”, sottintendendo che la colpa del fallimento sia loro. Ma è veramente così? È veramente un fallito chi non riesce a trovare un impiego dopo il diploma? Illich mostra – nei suoi studi traboccanti di dati, di fonti, di riferimenti alle evidenze della storia e dell’attualità – che il problema, al contrario, va ricercato nel sistema scolastico (lui si riferisce in particolare alla situazione multiculturale e istituzionale degli USA di 40 anni fa; ma il discorso resta valido in generale oggi, per tutto il mondo occidentale), che obbliga tutti i giovani – indipendentemente dalle proprie capacità e prospettive personali, oltre che familiari e culturali – a starsene dietro i banchi per lunghi anni. L’esito è nefasto: molti di quei ragazzi diventeranno infatti idraulici, camionisti, pizzaioli o falegnami, un po’ perché c’è bisogno anche di questi mestieri, un po’ perché è per essi che sono tagliati. Cosa recherà loro la scuola universale dell’obbligo? Una gran perdita di tempo e di vita; un “pezzo di carta” strappato controvoglia; e la frustrazione di vivere il loro lavoro come un ripiego, come un qualcosa cui hanno dovuto alla fine rassegnarsi perché “non hanno saputo mettere a frutto il loro titolo di studio”, mentre altri invece “ce l’hanno fatta”. L’invito a descolarizzare la società non intende tessere l’elogio dell’analfabetismo, ma offrire spunti di discussione da prendere oggi molto sul serio, di fronte a una situazione manifestamente paradossale, in cui la disoccupazione cresce e il mondo del (mancato) lavoro va riempiendosi di laureati “troppo qualificati” rispetto all’offerta. Se la scuola sta diventando tanto controproduttiva – superando cioè, secondo Illich, quella soglia oltre la quale gli svantaggi da essa recati superano i benefici – nasce infatti il sospetto che essa abbia smarrito il suo intento originario (quello di portare libertà e autonomia agli ultimi) e che il suo secondo fine si riduca ormai a garantire l’autoconservazione delle élite dominanti, che non intendono cedere il loro potere.
Il problema, in definitiva, non risiede nell’idea di scuola, ma nell’ampiezza che a tale idea si impone per obbligo di legge. Costruendo così il mito dell’irrinunciabilità dell’istruzione scolastica. Ivan Illich ci ha insegnato che una scuola così concepita è automaticamente destinata all’omologazione degli studenti, incapace di valorizzare i talenti e le particolarità dei singoli: i quali devono invece essere rimessi nelle condizioni di apprendere liberamente, secondo gli interessi, gli obiettivi, gli indirizzi propri e delle comunità di appartenenza. Affinché l’istruzione cessi di essere una forca caudina e torni ad essere quello che era quando è stata concepita: la più grande delle opportunità.

(«l'Altrapagina», febbraio 2017)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano