
Erano due bravi ragazzi è un romanzo che parla di Napoli e della camorra, argomento dal trend trascinante, il cui fascino resiste all’inflazione delle rappresentazioni televisive e della tanta narrativa-reportage. Qui si tematizza in particolare l’adesione alla criminalità organizzata in quanto “scivolone”: qualcosa che avviene senza premeditazione né calcolo, in un modo semiautomatico che – a partire da una certa insoddisfazione di fondo, non ancora plasmata ma impossibile da placare – conduce a un’avanzata inarrestabile anche se consapevole. Non un modo per giustificare la scelta, al contrario: un segnale d’allarme lanciato a quanti pensano che certe cose siano sempre il frutto di opzioni deliberate e ben meditate. Se questo è il punto di forza di una narrazione che si snoda fluida per quasi quattrocento pagine, il punto debole è il linguaggio, ricco di un dialetto napoletano che gli autori si sono sforzati di avvicinare al parlato (con un risultato spesso apprezzabile) ma che non sempre si allinea alle regole dell’ortografia e della grammatica. Peccato veniale da parte dei due autori, entrambi non napoletani (romano Scalia, pugliese Giuramento), cui si può quindi perdonare qualche dettaglio di poco conto (come l’errore nell’indicazione del nome del quartiere San Carlo all’Arena); ma che mette in evidenza, se non proprio una totale abdicazione, quanto meno una ingiustificata leggerezza dell’editing.
M. Giuramento, E. Scalia, Erano due bravi ragazzi, ed. Newton Compton, 2016.
(«Mangialibri», 7 dicembre 2016)
