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A Carmine Santojanni piace fare la bella vita, anche quando non se la può permettere: perciò lo chiamano “il cattivo tenente”, come quello del film di Abel Ferrara, che finisce per mettersi nei guai perché non riesce a darsi un freno. E, in effetti, è finito in mano agli usurai: all’usuraio, più precisamente, Don Antonio, che per lui ha un occhio di riguardo (gli applica il 7% di interesse, invece del 10%: al mese, ca va sans dire), ma che non di meno pretende sempre delle garanzie… Willy è un parrucchiere di Pomigliano D’Arco, gay e tossico: insomma, non proprio tossico, ma si fa di pasticche quanto basta per sognare sempre un’altra vita. Ha messo incinta la sua ragazza – che poi non sarebbe neanche la sua ragazza, ma adesso vaglielo a spiegare – e questo matrimonio, come dice suo fratello, s’ha da fare: ma non prima di aver pagato il giusto prezzo… Carmela vive in un basso dei Quartieri spagnoli, ha un bambino nella carrozzina, un marito in galera, e diverse stecche di sigarette di contrabbando da vendere prima di sera, per dare qualcosa da mangiare a quella creatura che si porta appresso… Scintillone è un tossico vero e di vecchia data: di quelli che ti sanno dire se la roba è buona o fa schifo proprio; che ti sanno indirizzare dal medico giusto per farti prescrivere una certa ricetta; che sanno come fregare farmacie, comunità, madri e padri…
Peppe Lanzetta, autore napoletano di spicco, tanto per la narrativa (si ricorda il suo splendido Giugno Picasso, del 2006) quanto per il teatro e per il cinema (recentemente ha recitato nell’ultimo James Bond – Spectre), mette insieme in questo romanzo una galleria di personaggi più o meno omogenei – tra chi vive al margine, non per sua scelta, e chi ne sfrutta la vita miserevole, finendo per vivere anch’esso al margine insieme agli altri: solo con più soldi – che interagiscono sullo sfondo di una Napoli che invece di dare a tutti un’opportunità, come si ama ripetere a proposito di altre realtà, sembra spesso chiudere a chi ci vive l’orizzonte di ogni possibilità: di più, di ogni speranza. E fantasia. Lo stile scelto è quello del parlato, che se da un lato predilige una la comprensibilità e una certa immediatezza, dall’altro viola vistosamente l’ortografia, tanto del dialetto (abbondante) quanto dell’italiano (scrivendo frequentemente senza spazi, come ad esempio “cattivotenente”, “occhistorti”, “fratellomacho” ecc.). Piccole storie che s’intrecciano in mezzo allo squallore, dove tutto è squallido, anche il furto che degenera in aggressione, le paste della domenica, un amore rubato al calore asfissiante di un pomeriggio estivo.
Peppe Lanzetta, Tropico di Napoli, ed. Feltrinelli, 2000.
(«Mangialibri», 17 ottobre 2016)
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