mercoledì 19 ottobre 2016

Pietro Treccagnoli, La pelle di Napoli, ed. Cairo, 2016

Rosa vende sigarette. Lo ha sempre fatto. Illegalmente, s’intende. Probabilmente è l’abitudine ad avere a che fare con la merce d’oltreoceano che le ha fatto cambiare il nome in Rosy: è così che si fa chiamare. Nata nel tabacco – nel suo profumo, nel suo commercio, nella possibilità di vita che lascia sperare a chi, senza né arte né parte, ben difficilmente potrebbe fare altro – è convinta che il contrabbando ci sarà sempre, anche dopo di lei… Emanuele è uno di quei ragazzi poco più che ventenni che sembrano una cosa sola con il loro scooter, al punto che quando muoiono in un incidente stradale i giornali parlando di “centauri”. Ma lui sullo scooter non ci muore, è uno con la testa a posto: lavora, a differenza di tanti suoi coetanei, vende rosette, il pane fresco lo porta caldo fino a casa… All’inizio il suo vocabolario può sembrare ristretto, ma poi ti rendi conto che è più ampio di quanto potrebbe diventare il tuo in dieci vite: abituata com’è ad avere a che fare – ogni giorno, ogni momento – con gente di tutte le latitudini, marocchini, russi, turchi, pakistani… Antonio Di Paolo è l’ultimo fresellaro di Napoli: la sua ditta ha centottanta anni e ancora oggi fa duemila freselle al giorno. Non ha un’insegna ed è impossibile trovarlo, se non sai dov’è: ma tutti sanno dov’è, perché la zuppa di cozze solo con la sua fresella te la puoi mangiare… E poi c’è la Cinesa, che non è una venditrice, e nemmeno una che fa quel celebre mestiere antico come il mondo: la Cinesa è la pizza che non sta in nessun menu, perché nessuno la ordinerebbe (con prosciutto cotto, pomodoro, salame, funghi e mais, senza mozzarella). Solo i Cinesi...
Questo libro di Pietro Treccagnoli, giornalista del “Mattino”, intende parlare di Napoli – città dalle mille anime, antichissima e sempre nuova, sconosciuta anche quando arcinota, e sempre da riscoprire al di sotto delle incrostazioni dello stereotipo e dell’oleografia che inevitabilmente il tempo lascia sedimentare – non dal punto di vista delle bellezze architettoniche o paesaggistiche, e nemmeno da quello dei tanto gettonati e inesauribili misteri, bensì da quello della gente qualunque, che vive realmente nei suoi vicoli esercitando arti e mestieri. Tentativo intrinsecamente ben riuscito – nonostante l’inflazionata arte di arrangiarsi la faccia da padrona – che rischia di perdersi nel mare delle pubblicazioni sull’argomento (soprattutto quelle, sempre più frequenti, in cui il reportage sconfina nella narrativa), e in un uso del dialetto napoletano distante tanto dalla grammatica quanto dall’ortografia. La pelle di Napoli è una galleria di ritratti – finalizzati a un realismo talvolta sovresposto, ma fermo sempre un passo prima di scadere nella macchietta – che fa venire in mente quelle di Peppe Lanzetta, ma senza il suo tipico intreccio romanzesco. Una lettura serale rilassante e, a tratti, perfino divertente.


Pietro Treccagnoli, La pelle di Napoli, ed. Cairo, 2016.

(«Mangialibri», 19 ottobre 2016)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano