Sotto la chiesa di Santa Maria ad Arco c’è una cripta che ospita le “anime pezzentelle”, quelle sepolte senza nome né lapide, che si giovano della preghiera degli sconosciuti (secondo l’uso per il quale la preghiera dei vivi può ridurre quella dei morti in purgatorio), i quali contano a loro volta sull’aiuto che potranno ricevere per gratitudine dall’aldilà (secondo l’idea che i morti possano recare buoni consigli ai vivi, ad esempio numeri da giocare al lotto, durante i sogni). Mitta è una di queste anime pezzentelle, falciata dalla peste del 1656 (e si direbbe che la morte l’abbia accompagnata fin dai primi tempi: era talmente magra che a casa la chiamavano appunto “Mitta”, cioè “la morta”). E il suo più grande desiderio è quello di far sentire nuovamente la sua voce! Per modo di dire: voce non ne ha più – di lei non rimane che il teschio, la capuzzella – e quello che vorrebbe fare (da quando si è resa conto che, nella nostra epoca, tutti scrivono libri con incredibile facilità) è raccontare le tante cose che ha visto e capito nei secoli, dopo la sua morte, in un libro. Mancherebbe solo l’autore che si presti al suo resoconto: ma forse un’anima di quelli che si trovano accanto a lei, ha già un’idea, e può darle una dritta interessante al riguardo…
Questo di Tina Cacciaglia, autrice pluripremiata (che ha all’attivo tre libri, di cui uno segnalato al Premio Italo Calvino), è un libro appena godibile, che aspira a farsi interrogazione sui grandi temi della vita (“Perché è accaduto all’uno e non all’altro?” “Perché ciascuno sceglie in modo diverso?”), esplorati tramite le storie di tante donne diverse, vissute in epoche e condizioni sociali diverse, che hanno “incontrato” Mitta (la quale, in realtà, essendo già morta, può solo ascoltarne i racconti, le confessioni, le preghiere, tramite la sua capuzzella; e poi raccontarne a sua volta, “ispirando” lo scrittore materiale). Il linguaggio è spesso inutilmente sovraccarico (“di razza si tratta, diversa e dissimile da quell’altra, gli uomini, a cui solo un poco somiglia”), alla ricerca della battuta a tutti i costi (anche dove la forzatura risulti poi evidente: “Sono convinta, però, che i bei tomi vengono scritti solo per i bei tomi che se li leggono”). Presto la novità dell’espediente narrativo segna il passo, e l’enfasi delle prime pagine si smarrisce. L’ortografia è curata, ma l’uso abbondante del napoletano – evidenziato in corsivo, ma non sempre – è purtroppo completamente sbagliato. Una lettura molto leggera.
T. Cacciaglia, Mitta. Storia di una capuzzella, ed. Runa, 2016.
(«Mangialibri», 21 settembre 2016)
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