Da un certo punto in poi – difficile stabilire il momento esatto, anche se probabilmente si tratta di un lungo arco che, partito dai primi giorni del Patto di Varsavia ha raggiunto l’apice con la caduta del muro di Berlino, e agita i suoi strascichi ancora oggi – si è identificato il pensiero concreto, quello vòlto a cambiare le condizioni reali di vita dell’uomo (e, più in generale, della realtà intera, anche intesa come ecosistema), al ben-essere in primo luogo… con la sinistra politica e con il “comunismo”; e il pensiero astratto, quello dei “princìpi” (o, peggio, dei “valori”), con la destra politica e con il liberismo. Perfino la teologia della liberazione non è sfuggita a questa assurda (per quanto è grossolana) equiparazione. Per i primi, il pensiero avrebbe dovuto essere motore e guida dell’evoluzione; per i secondi, questo compito spettava all’economia, e il pensiero lasciasse stare le cose al loro posto, tornando a occuparsi di ciò che sta al di sopra delle cose, per esempio la morale… Al di là di come la si pensi in proposito, e pur non volendo dimenticare che la prassi in filosofia si afferma proprio con Marx, resta l’interrogativo generale: un pensatore del concreto, va per ciò stesso etichettato come comunista? E il pensiero di Deleuze in particolare, può definirsi comunista? Probabilmente il buon senso (e la buona fede) indicano un’altra direzione, più semplice e immediata: lo specifico di Deleuze non è l’abbraccio di questa o quella teoria politica, né in senso teorico né in senso strumentale, ma l’aver voluto indicare che è il pensiero a dover conformarsi alla realtà, onde comprenderla, e non viceversa…
Per quanto anch’essa abusata e da prendere con la dovuta cautela, la nozione deleuziana di pensiero rizomatico categorizza proprio questa considerazione: è il pensiero a doversi fare incontro alla realtà – seguendone le traiettorie, le deviazioni imprevedibili, i salti acrobatici… e il filosofo deve essere preparato a qualunque evenienza, ad andare ovunque la realtà lo conduca, come un nomade in cerca di… nulla, se non della ricchezza che deriva dalla propria esperienza di viaggio. Qui trovano collocazione (se questo termine può essere correttamente usato per un pensiero che è, per il suo stesso metodo, in continuo movimento) le riflessioni dell’autore sull’arte, sulla società, sull’uomo stesso (si ricordino al riguardo quelle insieme a Guattari), riflessioni che Michael Hardt – studioso del pensiero di Deleuze e docente presso la Duke University – sintetizza mirabilmente in questo volume (a cura di Girolamo De Michele, per la traduzione di Cecilia Savi) che, per la sua lunghezza contenuta e per il linguaggio chiaro e ove possibile non tecnico, si offre alla fruttuosa lettura anche dei non specialisti. Dagli studi su Spinoza alla recezione del suo pensiero in America, regno della filosofia analitica (mentre quella di Deleuze è una filosofia schiettamente continentale), dalla lettura di Nietzsche all’ontologia materialistica, dal confronto con Bergson al rapporto tra pensiero e azione… Consigliato soprattutto a chi abbia voglia di incontrare un autore a tutt’oggi – a oltre vent’anni di distanza dalla sua morte – ingiustamente misconosciuto.
Michael Hardt, Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, ed. DeriveApprodi, 2016.
(«Mangialibri», 5 settembre 2016)
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