lunedì 27 giugno 2016

Napoli senza regole. Intervista ad Andrej Longo


Andrej Longo, ischitano d’origine e romano d’adozione, almeno in certi periodi dell’anno, dichiara che “quando scrive non sa cosa scriva”: «Apparentemente non so mai cosa esattamente sto scrivendo». Come se volesse mettersi a nudo col suo pubblico; o come se volesse stupirlo, una volta di più. Ma poi i suoi libri vengono premiati a destra e a manca, e accaparrati dai migliori tra gli editori. Così si affronta la sua opera più da vicino. E si entra nella sua “Napoli senza regole”.

Si dice che il nome Andrej ti sia stato dato in omaggio al protagonista di Guerra e pace di Tolstoj. È vero? La letteratura ti accompagna dunque fin dalla culla?
È così. Un regalo di mio padre. Inoltre Guerra e Pace è stato uno dei primi libri che ho letto. A cui è seguito Dostoevskij, Gogol, Cechov. Ho sempre pensato che anch’io avrei un giorno scritto storie.
Le tue storie sono nere, ma mai schiettamente noir. Eppure il tuo “tono” potrebbe venir affiancato a quello, tanto per fare un nome, di Giuseppe Ferrandino e del suo celebre Pericle il Nero (peraltro anch’egli autore Adelphi). Quale scelta stilistica c’è, dietro al tuo modo di fare narrativa?
Mi piacciono le storie che scavano nell’animo umano. Le storie delle persone normali, quelle della porta accanto. Mi piace cercare dietro le apparenze. Capire come e perché avvengono certi fatti. Il noir racconta bene le pieghe nascoste della realtà, ma a volte è troppo poco introspettivo. Questa dimensione nera, non priva d’ironia, è quella che meglio si adatta a me.
Raccontare Napoli è sempre difficile: c’è tanto da dire, ma tanto è già stato detto; si ricerca l’originalità, ma il richiamo dei mille cliché, dall’oleografia al cinema, è sempre dietro l’angolo. Insomma: raccontare Napoli si può?
Napoli è una città talmente particolare (per questo sono tornato a viverci) che ci sarà sempre qualcosa da raccontare. Con tutti i rischi che questo comporta, compreso quello della ricerca a tutti i costi dell’originalità. Per questo, ogni volta che mi trovo tra le mani una storia da ambientare nella mia città, la prima domanda che mi faccio è se quello che ho in mente è già stato raccontato. Se vale la pena raccontarlo. Se quella storia è davvero indispensabile.
Ti senti più a tuo agio con il racconto, o con il romanzo? Cosa ti diverte più scrivere? E dove pensi di ottenere l’effetto migliore?
Il racconto e il romanzo sono due maniere diverse di guardare la realtà. È l’angolatura che cambia, non la realtà. Però a volte succede che cambiando l’angolatura scopri aspetti della realtà che prima non avevi notato. È un po’ come guardare il mare d’estate o d’inverno. Sono due mari diversi, eppure è lo stesso mare.
Con il tuo primo libro hai mostrato che Napoli e i napoletani sono, sì, qualcosa di diverso, magari di unico, ma non di “fuori dal mondo”: non si tratta di qualcosa “a parte” - sensazione che magari possono dare certe serie TV. Come spiegare, in sintesi, questa singolarità a qualcuno che voglia andare oltre le brochure per i turisti?
Il “napoletano antropologicamente diverso” è il vero luogo comune. A cui però ogni tanto gli stessi napoletani si lasciano andare. È come se essi stessi si adattassero all’immaginario del turista, a quella descrizione che altri fanno di loro. In ogni caso, venga dall’esterno o dall’interno, la leggenda del napoletano antropologicamente diverso è anche e soprattutto una comoda scusa per evitare qualunque serio tentativo di cambiamento.
E poi c’è il tuo mestiere di pizzaiolo, il gioco degli scacchi (di cui possiedi il titolo di “maestro”), i rifiuti dei tanti editori prima del “sì” di Adelphi: quante cose di Longo ancora non sappiamo? Soprattutto: cosa bolle in pentola - pardon - in tipografia?
L’accanimento di una certa stampa sul “pizzaiolo scrittore” dà l’idea di quanto ancora sia provinciale l’Italia. E di come spesso sia superficiale l’analisi della realtà. Anche sugli scacchi ci sarebbe tanto da raccontare. E forse la cosa migliore sarebbe che lo raccontassi io. Per quanto riguarda i rifiuti editoriali, quale scrittore non ne ha ricevuti. La cosa interessante, però, non è tanto il rifiutare un manoscritto (o una sceneggiatura), ma nel non rispondere. Ti racconto un aneddoto. Quando io e Peppe Ferrandino cercavamo un produttore per Pericle il Nero (volevamo scrivere la sceneggiatura insieme) nessun produttore dei dieci o venti che contattammo ci degnò di una risposta. L’unico a farlo fu un produttore francese, che ci rispose in italiano dopo 15 giorni: voleva produrre il film, ma cercava un coproduttore italiano.
Quello di «Mangialibri» è un pubblico che “legge come mangia”. Vuoi salutarlo in maniera speciale, magari nel tuo dialetto?
Ma no, bastano già i miei libri. Però mi piace notare che sia il mangiare che il leggere hanno bisogno di tempo. Mentre oggi si tende ad andare di fretta. E non è forse proprio la fretta ciò che ci impedisce di godere delle cose e delle persone che amiamo?

(«Mangialibri», 27 giugno 2016)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano