Chi di noi non ha qualche vizio, alzi la mano. Ma il barone Carlo Coriolano di Santafusca - notabile napoletano da generazioni - ha purtroppo uno dei vizi più cari e pericolosi: quello del gioco. Non c’è cifra, immobile, dignità, che non sia disposto a perdere, di fronte a un tavolo e a un mazzo di carte; e ciò a dispetto della sua venerazione per la saggezza razionalistica del dottor Panterre, studioso francese di cui conosce a memoria i testi, che non manca di citare alla prima occasione. Ma per quanto la furia del gioco lo abbia reso in certo modo inavveduto e indesiderato (al punto che gli amici di un tempo fuggono da lui al solo vederlo, nel timore che possa chiedere loro un prestito), non è diventato meno lucido e scaltro: sa bene che basterebbe poco per rimetterlo in sella. Un po’ di denaro. Di quel denaro vile che Dio - nel quale peraltro non crede - mette in mano a chi non ne ha bisogno. E che, come lui ha un terribile vizio: quello di accumularne senza fine. Nel momento in cui si rende conto che una piccola parte degli averi di don Cirillo - avido usuraio - potrebbe cavarlo d’impaccio, concepisce automaticamente il suo piano criminale: attirarlo fuori città, presso la propria villa di campagna, e lì ucciderlo senza indugio. E senza testimoni. Un piano semplice e perfetto. Non fosse per un piccolo dettaglio: il cappello che il prete porta sulla testa...
Definito come il primo giallo italiano, Il cappello del prete non nasce in realtà con l’obiettivo di fondare un genere nuovo, bensì con quello di strappare alla Francia il predominio (per non dire l’esclusiva) sul romanzo d’appendice, ovvero sulla cosiddetta “letteratura amena”. Il romanzo venne pubblicato nel 1888 a puntate, contemporaneamente, su due giornali, «L’Italia» di Milano e «Il Corriere di Napoli». Con questa prima doppia uscita, la scommessa di Emilio De Marchi - quella cioè di dar vita a una storia che potesse essere letta dalla massa, senza per questo dover rinunciare a ogni tipo di contenuto, e di mantenere alta la tensione (e l’attenzione: fondamentale in un feuilleton), senza arenarsi in virtuosismi stilistici volti a soddisfare una ristretta cerchia di eruditi, è ampiamente vinta: l’opera è attualissima ed entusiasmante, tanto per la costruzione quanto per il ritmo, e in essa ambienti e personaggi sono ritratti mirabilmente. La vena pedagogica dell’autore (in altre opere ben più marcata, mentre qui si rivela ben dosata e funzionale alla trama) spinge il protagonista verso l’ineluttabile finale à la Dostoevskij. L’editore Fagiolari ne offre oggi una versione integrale contenutissima tanto nelle dimensioni quanto nel prezzo: accessibile, letteralmente e in entrambi i sensi, a tutte le tasche.
Emilio De Marchi, Il cappello del prete, ed. Fagiolari, 2015.
(«Mangialibri», 17 giugno 2016)
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