mercoledì 13 aprile 2016
James Crumley, L’ultimo vero bacio, ed. Einaudi, 2004
Abraham Trahearne, poeta e scrittore di fama sul viale del tramonto, è scappato: dagli torto, vive nella stessa casa insieme alla ex moglie e a quella attuale, oltre che a sua madre. Non è questo però il motivo per cui è andato via: continuamente alla ricerca di un’ispirazione e di un impegno letterario smarriti da anni, si è semplicemente dato a uno dei suoi tanti “tour alcolici” che di tanto in tanto si concede. Ma stavolta sua moglie (la ex) ne ha abbastanza: ha assoldato Chauncey Wayne Sughrue - barista e investigatore privato all’occorrenza, fautore di un metodo d’indagine tutto suo, denominato “alla cieca” - per ritrovare Trahearne e ricondurlo all’ovile. Un compito, tutto sommato, facile e ben retribuito. Ma che non ha fatto i conti con l’imprevisto (e con l’incredibile capacità che le cose hanno di complicarsi da sole): quando una madre gli chiede di rintracciare sua figlia Betty Sue, scomparsa più di dieci anni prima, che potrebbe essere morta (mentre lei è sicura del contrario), lui si lascia convincere. E non certo per gli ottantasette dollari che la donna ha messo da parte con tanta fatica, che non bastano neanche per il pieno di benzina; né per la frammentarietà delle informazioni, che la vogliono ora in un porno casareccio, ora in una comune sul fiume. Qual è il motivo, quello vero? Forse il fatto che Betty Sue ha la fatale capacità di mandare gli uomini in preda all’ossessione fin dal primo sguardo: ma possibile che sia capitato a lui, al banco del bar, al solo vedere quella fotografia di tanti anni prima?
«Alla fine lo beccai, Abraham Trahearne: lo beccai che beveva birra in compagnia di un bulldog alcolizzato, tale Fireball Roberts, in una sgangherata bettola appena fuori Sonoma, California, intento a spremere anche le ultime gocce di un bel pomeriggio di primavera»: se è vero che questo incipit - come afferma Luca Conti, curatore della versione Einaudi, macchiata da un po’ troppi refusi, di The Last Good Kiss, (1978; la prima traduzione, di Edoardo Erba, era del 1981 per Mondadori) - è “forse il più celebre e citato della storia del giallo” (né si può dire che non sia splendido), non è per questo che si ricorda L’ultimo vero bacio, a fine lettura. Banale (ma quanto reale!) dire che se ne vorrebbe ancora, certo; che il colpo di scena finale (solo uno dei molti) riempie di tanta amarezza che se ne cerca una smentita fin nella Postfazione, nell’Indice, magari in quarta di copertina; o altre romanticherie (come il pensiero delle donne del romanzo - nessuna esclusa, dalla più giovane e bella alla più arcigna e malconcia - di cui si sente l’immediata mancanza). Ma il punto è che questo libro, nonostante sia un noir con tutti i crismi, fino all’imprevedibile “duello” verbale che lo chiude, aspro e violentissimo, è talmente oltre se stesso da indurre uno scrittore come Dennis Lehane a dire: “Lì abbiamo capito con chiarezza cosa era possibile fare con un romanzo poliziesco”. Nel quale c’è tutto ciò che un lettore di hardboiled possa desiderare: scazzottate, sparatorie, inseguimenti, imboscate; ma anche abboccamenti, appuntamenti clandestini, sortite fuori porta, piani sottilissimi dove qualcosa finisce inevitabilmente per andare storto… Poi c’è la parlantina irresistibile di C.W. Sughrue, brillante fino all’eccessivo (“Non puoi essere contemporaneamente un simpaticone e un duro” gli dice un picchiatore all’opera; eppure lui lo fa), la cura delle definizioni dei personaggi e delle relazioni e l’abilità (certe volte, si direbbe: “la malizia”) nel rovesciare situazioni tragiche nel comico, e viceversa, a renderlo un precursore e un pezzo unico da non perdere, non solo per gli amanti del genere.
James Crumley, L’ultimo vero bacio, ed. Einaudi, 2004.
(«Mangialibri», 13 aprile 2015)
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