lunedì 18 aprile 2016
James Crumley, L’anatra messicana, ed. Mondadori, 1993
«Si pensa che gli investigatori privati abbiano un codice, qualcosa come “non mollare mai” o “la giustizia a ogni costo” o “punire i colpevoli, chiunque essi siano”; ma se un codice dell’investigatore privato c’è, è più probabile che suoni come “non restituire mai l’anticipo”». Ecco perché il detective Sughrue, nonostante si tratti di un’impresa suicida, è risoluto a non abbandonarla: una volta accettato l’incarico di Joe e Frank Dahlgren, non se la sente di tornare indietro. In realtà non è per i soldi (cioè, non solo per quelli): lui è abituato a considerare se stesso come uno che, se non ha ancora raggiunto la meta, non si ferma. Non è proprio una questione di principio; si direbbe di più una specie di difetto del carattere. Che questa volta rischia di costargli parecchio: i due giganteschi fratelli Dahlgren, a fronte di una grossa fornitura, sono entrati in possesso di un assegno che, al momento dell’incasso, è risultato scoperto; e ora vorrebbero indietro la merce. Il “problema” - per usare un eufemismo - è che l’assegno è stato firmato da Norman Hazelbrook, meglio noto come Norman l’Anormale, capo di una gang di motociclisti denominati Snowdrifters. “Senza violenza”, hanno specificato i due committenti, ma è abbastanza chiaro che di violenza ce ne vorrà, e anche un bel po’...
Dopo lo straordinario impatto del precedente L’ultimo vero bacio - capolavoro che ha messo d’accordo tutti: critica, pubblico, scrittori ed epigoni vari - James Crumley torna a narrarci, a quindici anni di distanza (ben diciotto per il lettore italiano), le gesta di C.W. Sughrue, barista per vivere (e per inclinazione) e investigatore privato all’occorrenza e per passione, con la sua linguaccia fin troppo lunga - che ha la deplorevole e perniciosa abitudine di usare nei momenti meno indicati - e la sua capacità di portare avanti ogni indagine fin dove necessario senza risparmiarsi, a testa bassa, macinando chilometri e digerendo scazzottate di ogni entità - talvolta fino a beccarsi la pallottola. Bissare lo strepitoso esito del predecessore sarebbe stato impensabile, e in effetti questo romanzo fatica a rimanere all’altezza, perché il lettore - soprattutto quello che ami Crumley visceralmente - non può fare a meno di paragonarli, pagina dopo pagina. Ma, a ben vedere, anche se ogni tanto l’autore sembra ostinarsi a voler battere gli stessi sentieri, a voler ricercare per forza la stessa battuta, a dispetto del risultato, in realtà L’anatra messicana è un gran bel libro hardboiled che non delude gli amanti del genere e regala la stessa inconfondibile miscela di romanticismo e di alta tensione.
James Crumley, L’anatra messicana, ed. Mondadori, 1993.
(«Mangialibri», 18 aprile 2016)
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