lunedì 22 febbraio 2016
Jean-Patrick Manchette, Piccolo blues, ed. Einaudi, 2002
«È molto semplice. Fino all’anno scorso ero un quadro intermedio in una società, a Parigi. Sono andato in vacanza e due uomini hanno cercato in un paio di riprese di assassinarmi, per una ragione che ignoro. Due uomini che non conosco. Per reazione, ho abbandonato mia moglie e le mie bambine e, invece di avvertire la polizia, ho cominciato a scappare, a caso»: così, in breve, Georges Gerfaut - o Sorel, o Gaillard, all’occorrenza - si accinge a spiegare la sua vita degli ultimi mesi. La donna lo ascolta, un po’ inquietata, un po’ divertita. Difficile credergli: soprattutto di fronte alle tante lacune del suo racconto. Prima fra tutte: perché non ha chiamato la polizia? Quasi impossibile, poi, credere che simili stravolgimenti possano accadere nella vita normale di gente normale. Lui non cerca di convincerla - non ci riuscirebbe, e poi non è affatto questa la cosa più importante - è già andato oltre: sta accarezzando l’idea di un’esistenza completamente nuova, diversa, da zero, seppur improvvisata e incerta. Magari lei potrebbe fare un tratto di strada insieme a lui, tuffarsi in questa avventura - per quanto? Un fine settimana? Un mese, un anno? - A un tratto si fa euforico: “Sono libero - le dice - posso fare della mia vita quello che voglio”. “Smettila di bere” replica lei...
Immaginate Cane di paglia, il capolavoro di Sam Peckinpah interpretato da Dustin Hoffman. Però ambientato non al chiuso, in un minuscolo paesino di collina, ma all’aperto, nelle strade per lo più notturne della Francia, quella delle città e delle periferie, delle coste e delle spiagge. Il protagonista si ritrova qui d’improvviso, senza sapere come - soprattutto, senza che possa attribuire a se stesso la benché minima colpa - inseguito da due killer professionisti, che non amano fare domande e non hanno tempo da perdere in accertamenti. Se si tratta di un errore, insomma, nessuno ha tempo e voglia di scoprirlo: troppe fughe in aperta montagna sono all’orizzonte, imboscate alle pompe di benzina, ruzzolate dal treno in corsa. Piccolo blues è un romanzo nerissimo che cresce a piccoli passi ma senza sosta, dove non c’è un angolino di pace o di gioia nemmeno per gli innocenti, e nemmeno a casa propria - dove a volte una disarmonia familiare di fondo fa rimpiangere l’ufficio - e, sì, tutto può succedere, in qualunque momento, a chiunque di noi. Basta una sola scelta sbagliata per rendersene conto; non importa quanto retta e perfino banale possa essere stata ogni giornata precedente. Sullo sfondo, non invadente ma ben presente - come di rito, nei lavori di Manchette - un comunismo mai sbandierato ma che viene fuori nei piccoli precisi accenni al ’68, al movimento operaio, a un orologio comprato dagli scioperanti, alle letture di Castoriadis e di Morin, alla manodopera presa all’estero e sfruttata al di fuori di ogni legalità o salario minimo. E una umanità variamente criminale dove nessuno - neanche il più selvaggio dei killer - è abbastanza selvatico da non ascoltare musica con un impianto quadrifonico ad alta fedeltà della Sharp. Romanzo sociale ad alta carica, accelerato dalla brevità. Il solito straordinario Manchette.
Jean-Patrick Manchette, Piccolo blues, ed. Einaudi, 2002.
(«Mangialibri», 22 febbraio 2016)
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