Sarebbero tante le cose da annotare in questo bellissimo romanzo di Igiaba Scego, giornalista e scrittrice romana. Adua è una donna adulta che soffre ancora - come da bambina - per la mancanza di un padre che era assente proprio quando credeva di esserlo meno, con le sue frasi fatte, il suo maschilismo magari tradizionale, ma non di meno deteriore in quanto acritico, la sua scarsa affettività, incapace di ascoltare la figlia al punto che questa trova maggiore compagnia nella statua dell’elefante che regge l’obelisco in piazza Santa Maria sotto Minerva: almeno lui sembra avere le orecchie più grandi e ricettive. Uomo che ha patito il fascismo della colonizzazione, e il bullismo dei camerati italiani (che qui fanno francamente - e giustamente - la figura dei deficienti, intenti a compiacersi della loro violenza che li vede accanirsi in tre contro uno - quell’uno che è poi l’unico che potrà aiutarli domani nella sua qualità di interprete). Caratteristica fondamentale dell’intero romanzo è proprio l’equilibrio in cui nessuno è santo né dannato, da nessuna parte; dove finalmente la Storia si armonizza con le tante storie personali che non conoscono né bianco né nero e dove perfino i compatrioti somali si scherniscono a vicenda - non senza una certa cattiveria - con i nuovi immigrati che chiamano “vecchie lire” quelli che li hanno preceduti e questi, a loro volta, che danno loro del “Titanic”. Un libro di grande emotività, scevro da sentimentalismi. Consigliato.
I. Scego, Adua, ed. Giunti, 2015.
(«Mangialibri», 4 novembre 2015)
