A Orrore vesuviano, paesino del napoletano, tutti i giorni sono uguali: si bazzica in cerca di qualche lavoro spicciolo (in mancanza di qualunque prospettiva di averne uno stabile), si “butta a passare il tempo” ma, soprattutto, si cerca di portare la pelle a casa la sera: quel luogo ha infatti un triste e perturbante record, che è il numero delle pallottole vaganti a qualsiasi ora, dono di un’intera mandria di scapestrati che amano sparare per esigenze di autoaffermazione, oltre che per cattiva abitudine e mancanza di fantasia. C’è anche la bellezza, in questo posto, e si chiama Aurelia Scala: fioraia per la quale - nonostante il caratteraccio e la tendenza a tenere gli uomini a distanza - ogni paesano ha rischiato di perdere la testa. In senso letterale, oltre che metaforico: non sarebbe il primo che, dopo averla avvicinata, ha fatto una brutta fine. Complice il figlio Luca, che dice di non esserne geloso ma poi, in cuor suo, custodisce un segreto irrivelabile…
Orrore vesuviano, come sappiamo bene, non esiste: nasce dalla creatività di Francesco Costa e prende forma nel suo romanzo omonimo, appena edito da Bompiani. Un’“opera di fantasia”, si dice in questi casi, sottintendendo che ha poco o niente a che fare con la realtà. Allora perché l’atmosfera ci sembra tanto familiare? Perché i fatti narrati - pur nel loro evidente eccesso - ci sembrano tutt’altro che inverosimili o distanti? L’autore prende spunto da quello che ha intorno a sé, è evidente. Ma è tutto qui?
Il dubbio che la separazione tra realtà e fantasia sia tanto marcata, continua a tornarmi. Leggo sul giornale che uno degli attori di Gomorra, che nel celeberrimo film di Garrone interpretava il ruolo di uno spacciatore… è stato arrestato per droga. (Peraltro non sarebbe il primo: anni fa un altro di quello stesso cast era stato arrestato poco dopo le riprese). E mi domando: quanto è stretto il legame fra ciò che vediamo e ciò che immaginiamo? Quanto facilmente la realtà arriva a superare la fantasia? Quanto le due si intridono e si alimentano a vicenda?
Nel caso di eventi editoriali come questo, si sente spesso ripetere che gli scrittori napoletani sono particolari e unici perché vivono immersi in un mondo che non ha simili. Leggo e - come dire: automaticamente - mi inorgoglisco. Un attimo dopo penso a quanto spesso - tutti i giorni, a ben vedere - immagino che le cose possano essere diverse. Finisco per pensare che, se le cose cambiassero davvero, cambierebbe anche la nostra letteratura. Mi dispiacerebbe. Assai. Ma non ne sarebbe forse valsa la pena?
(«Il Caffè», 2 ottobre 2015)
venerdì 9 ottobre 2015
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