La recente notizia dell’acquisto da parte di Google di Deepmind, per la cifra di 400 milioni di dollari, ha fatto il giro del pianeta. Deepmind è una società londinese che lavora alla realizzazione di una intelligenza artificiale “al servizio dell’umanità”: un insieme di computer, robot, software, reti che cercano soluzioni al problema della crescente scarsità di acqua potabile, ad esempio; del clima o dei rifiuti, e perfino dell’ingiustizia sociale.
Ognuno ha le sue idee in proposito. C’è chi ci crede poco o niente; Google, evidentemente, ci crede parecchio. Ma c’è anche chi paventa il rischio che una simile tecnologia possa diventare un giorno talmente autonoma da sfuggire al controllo del proprio creatore (l’uomo) e creargli danno (magari addirittura rivoltandosi contro di lui, come in certa fantascienza distopica). E non sono mica gli ultimi arrivati a parlarne in questi termini: tra i pessimisti figurano i nomi illustri di Elon Musk (genio dell’informatica e della fisica spaziale), Bill Gates (Microsoft) e il noto scienziato di Oxford Stephen Hawking.
Si può discutere se la paura che i Golem prendano il sopravvento sia un residuo della narrazione ebraica della Qabbalah; o se l’uomo resti psicologicamente inadeguato a considerare se stesso come “il creatore” di qualcosa (o di qualcuno). Ma, al di là di tante paure e dietrologie, mi piacerebbe riflettere su questo: le intelligenze artificiali in questione dovrebbero aiutare l’uomo a risolvere dei problemi. Quali? Forse l’annoso problema meccanico dei tre corpi in movimento? Certo che no. La fusione nucleare pulita? Figuriamoci. Ciò che chiediamo a queste macchine - perché di questo stiamo parlando: di macchine - è di risolvere i problemi che noi stessi abbiamo creato: l’inquinamento, l’alterazione climatica, l’esaurimento delle risorse idriche (anche a causa dei primi due), l’ingiustizia nella distribuzione dell’enorme ricchezza che possediamo (e che nessuna epoca, prima di noi, ha posseduto in maniera paragonabile). Potremmo essere meno sporchi, folli e ingiusti, e cominciare a risolverceli da soli i nostri problemi: ma poiché non ne abbiamo nessuna intenzione, ci mettiamo a costruire androidi che lo facciano al nostro posto. Più che un rischio, tutto ciò mi sembra un alibi. E pure di quelli meno verosimili; di quelli che, quando tua moglie a finito di ascoltarti, di ritorno a casa alle tre di notte con le scarpe in mano per non fare rumore, ti dice: «Inventatene un’altra». Sarò controtendenza, ma non mi preoccupa quanto autonomo e pericoloso possa diventare un robot. Quello che mi preoccupa, seriamente, è quanto stupido stia diventando l’uomo.
(«Il Caffè», 3 luglio 2015)
