venerdì 10 luglio 2015
Sempre più intelligenti
La recente notizia dell’acquisto da parte di Google di Deepmind, per la cifra di 400 milioni di dollari, ha fatto il giro del pianeta. Deepmind è una società londinese che lavora alla realizzazione di una intelligenza artificiale “al servizio dell’umanità”: un insieme di computer, robot, software, reti che cercano soluzioni al problema della crescente scarsità di acqua potabile, ad esempio; del clima o dei rifiuti, e perfino dell’ingiustizia sociale.
Ognuno ha le sue idee in proposito. C’è chi ci crede poco o niente; Google, evidentemente, ci crede parecchio. Ma c’è anche chi paventa il rischio che una simile tecnologia possa diventare un giorno talmente autonoma da sfuggire al controllo del proprio creatore (l’uomo) e creargli danno (magari addirittura rivoltandosi contro di lui, come in certa fantascienza distopica). E non sono mica gli ultimi arrivati a parlarne in questi termini: tra i pessimisti figurano i nomi illustri di Elon Musk (genio dell’informatica e della fisica spaziale), Bill Gates (Microsoft) e il noto scienziato di Oxford Stephen Hawking.
Si può discutere se la paura che i Golem prendano il sopravvento sia un residuo della narrazione ebraica della Qabbalah; o se l’uomo resti psicologicamente inadeguato a considerare se stesso come “il creatore” di qualcosa (o di qualcuno). Ma, al di là di tante paure e dietrologie, mi piacerebbe riflettere su questo: le intelligenze artificiali in questione dovrebbero aiutare l’uomo a risolvere dei problemi. Quali? Forse l’annoso problema meccanico dei tre corpi in movimento? Certo che no. La fusione nucleare pulita? Figuriamoci. Ciò che chiediamo a queste macchine - perché di questo stiamo parlando: di macchine - è di risolvere i problemi che noi stessi abbiamo creato: l’inquinamento, l’alterazione climatica, l’esaurimento delle risorse idriche (anche a causa dei primi due), l’ingiustizia nella distribuzione dell’enorme ricchezza che possediamo (e che nessuna epoca, prima di noi, ha posseduto in maniera paragonabile). Potremmo essere meno sporchi, folli e ingiusti, e cominciare a risolverceli da soli i nostri problemi: ma poiché non ne abbiamo nessuna intenzione, ci mettiamo a costruire androidi che lo facciano al nostro posto. Più che un rischio, tutto ciò mi sembra un alibi. E pure di quelli meno verosimili; di quelli che, quando tua moglie a finito di ascoltarti, di ritorno a casa alle tre di notte con le scarpe in mano per non fare rumore, ti dice: «Inventatene un’altra». Sarò controtendenza, ma non mi preoccupa quanto autonomo e pericoloso possa diventare un robot. Quello che mi preoccupa, seriamente, è quanto stupido stia diventando l’uomo.
(«Il Caffè», 3 luglio 2015)
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