Leggere Mishima fa un po’ lo stesso effetto del trovarsi di fronte al mostro sacro: percepisci di stare al cospetto della divinità, eppure non riesci ad essere contento di stare lì, il mostro è brutto accidenti, e pur riconoscendo tutte le sue qualità non puoi onestamente far credere a te stesso che ti stia piacendo. Mishima è un gigante della penna, sia chiaro: chi dice il contrario non l’ha letto, o è schiavo di qualche pregiudizio ideologico. Ma è evidente che non è una lettura per tutti. E non solo nel senso generale in cui nessun autore lo è; più in particolare, un certo stile tendente a prendere e lasciare (per poi riprendere) le descrizioni, per pagine e pagine, non aiuta a tenere il filo della narrazione, già di per sé inframmezzata da termini e nomi propri in lingua e resa eterea da approfondimenti psicologici di carattere egotistico (a cui vanno aggiunte ricorrenti frasi senza verbo). Più che a una narrazione sembra spesso di star di fronte alla realizzazione di un quadro, in cui l’affermazione cede il posto alla pennellata. Roba da museo? Nient’affatto. Ma nemmeno una lettura da métro. Questo romanzo è l’ultimo della tetralogia “Il mare della fertilità” e riporta in chiusura la data del 25 novembre 1970, giorno in cui l’autore - appena dopo aver consegnato il manoscritto all’editore - si tolse la vita.
Yukio Mishima, La decomposizione dell’angelo, ed. Feltrinelli, 2012.
(«Mangialibri», 15 giugno 2015)
