Agbogbloshie. Un posto brutto. Fin dal nome. Non sbaglia chi lo immagini come una specie di deserto di derelizione, una grossa spianata ricoperta di rifiuti, a mucchi, un po’ in ogni dove e a perdita d’occhio. Potrebbe essere peggio di così? Di fatto, lo è: quei rifiuti sono tossici. E: il paese - che si trova ad Accra, in Ghana - è abitato, da migliaia di persone. Che tutti i giorni frugano tra quei rifiuti - il cui deposito non cessa di accrescersi, grazie ai continui sversamenti da parte dei Paesi “sviluppati”. Si tratta di scarti elettronici e informatici, il famigerato RAEE, che i bambini dello slum - è questo il nome di quel tipo di insediamento, talmente povero e mal messo da non poter aspirare nemmeno al titolo di “baraccopoli” - saccheggiano alla ricerca di metalli pregiati - rame, argento, oro - da rivendere al mercato in tempo per la zuppa del pranzo.
Claudio Turina, nel suo ultimo Città di Dio. Il posto più tossico del mondo (ed. Clony, i cui proventi verranno devoluti alla missione), racconta in forma romanzata la sua esperienza di missionario laico, ex giuliano, nello slum di Agbogbloshie. Narrando dell’esperienza di personaggi disperati e riuscendo tuttavia a dare una speranza perfino a loro: quella emanciparsi da una situazione tanto sventurata grazie a una poderosa presa di consapevolezza e, in particolare, alla presa di coscienza di quel “resto del mondo” che finora non ha fatto altro che girarsi dall’altra parte. Fino a quando?
Daniele Spero, direttore del Segretariato per le Attività Ecumeniche di Venezia, nella sua pregevole Postfazione, ci fa notare che noi - dall’alto del nostro status personale e sociale - ci sentiamo, appunto, superiori. In qualche modo noi siamo gli “sviluppati”; se stiamo meglio - non nascondiamocelo - è anche perché siamo bravi. In gamba. Anzi: più in gamba di loro. Ma è veramente così? Non siamo forse in errore? Di fatto - domanda il prof. Spero con la forza dell’evidenza - chi dovrebbe dirsi più in gamba: chi vive quotidianamente nello slum lottando contro la fame, le malattie e la malasorte, o chi - come ciascuno di noi - non saprebbe resistere una sola ora in mezzo a quelle strade desolate e maleodoranti, senza servizi igienici, senza elettricità, senza acqua corrente?
Occasione per riflettere una volta di più su un’altra cosa. Su questa nostra Caserta, di cui tanto spesso e tanto male parliamo (non di rado a ragion veduta). Anzitutto perché dovremmo rilevare più di frequente - non che vi sia qualcuno che sta più inguaiato di noi: questo lo sappiamo già, non consola e non è di nessuna utilità - la ricchezza che abbiamo a portata di mano in una città come la nostra e che sperperiamo per inciviltà o per incuria (o per la mala amministrazione, certo). E per notare un’ulteriore cosa, che è forse la più importante di tutte: domenica si vota e c’è in ballo il futuro dell’amministrazione della nostra regione preferita (No, non il Trentino: intendo la Campania). Non abbandoniamoci agli slogan e alle cattive abitudini, dal “sono tutti uguali” (che è falso) al “tanto non cambia mai niente” (che è assurdo). Questa città ha semplicemente bisogno di un po’ più del nostro amore. E del nostro impegno. Non neghiamole questa speranza.
(«Il Caffè», 29 maggio 2015)
venerdì 5 giugno 2015
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