Istintivamente è difficile immaginare che un capolavoro possa celarsi in un piccolo libro, di una sessantina di pagine appena: la filosofia ci ha abituati a letture defatiganti e all’idea che la densità del pensiero vada di pari passo alla lunghezza dell’esposizione. Eppure c’è sempre dietro l’angolo l’eccezione che conferma la regola; verrebbe da aggiungere: “quella che non ti aspetti”, ma nel caso di La bellezza (non) ci salverà, di Agnes Heller e Zygmunt Bauman (ed. Il Margine) c’era da aspettarselo eccome.
Comincia Agnes Heller, filosofa ungherese ultraottantenne e massima esponente della “Scuola di Budapest”, con la sua riflessione sulla bellezza tra l’antichità e la modernità: per lei - nel solco dell’estetica di Adorno - la bellezza è “promessa di felicità”, quella sensazione - di fronte a un’opera d’arte, ad esempio un quadro, che ci colpisce - che «ci fa desiderare ardentemente una vita all’interno di quel dipinto perfetto». E che magari non ci salverà (è scettica tanto rispetto alle prospettive religiose quanto a quelle metafisiche), ma di certo ci aiuta - al pari dell’amore e della libertà - a tener lontana la disperazione. In questo senso non c’è nulla di più utile alla vita della bellezza.
Bauman, con il suo ben noto approccio pragmatico, dà “un ulteriore giro di vite” a questo aspetto di utilità e si domanda: «Può la bellezza partecipare a tale sforzo [di rendere migliore il mondo] giocando in esso un ruolo significativo? E se ciò è possibile, che cosa deve essere fatto, per provare a fare di questo nostro mondo un posto migliore per tutti?» Trampolino da cui si lancia in un esame della distopia di questo secolo e di quello scorso, da Zamjatin-Huxley-Orwell ai recenti lavori di Houellebecq (La possibilità di un’isola) e di Haneke (Il nastro bianco), per concludere - in un excursus che passa per Foucault, Weber, Kundera - che la bellezza dell’opera moderna non sta nella sua capacità di produrre “posti immaginari in cui si vorrebbe stare”, bensì nel mostrare senza veli la bruttezza di quello in cui viviamo (il mondo d’oggi) onde superarne - si spera in meglio - la forma attuale.
Si farebbe però un torto all’editore se ci si fermasse qui, parlando di questo come di un libro scritto a (sole) quattro mani. Come rileva opportunamente il direttore editoriale, Paolo Ghezzi, nella sua Postfazione (che è anche un Glossario di termini baumaniani), sono almeno altri due i nomi da ricordare: quello di Francesco Comina, giornalista, che ha a lungo “corteggiato” la pensatrice in giro per l’Europa prima di riuscire a condurla in Italia con esiti tanto fausti. E quello di Riccardo Mazzeo, amico di Zygmunt Bauman e autore con lui di ben due libri, che ricorda - nella sua illuminante Prefazione al volume - quanto la bellezza sia ambivalente e legata a doppio filo alla sua antagonista - la bruttezza - caratteristica che rende, se non impossibile, quanto meno improbabile come candidata a “salvare l’umanità”. Mazzeo - intellettuale di spicco della scena trentina e nazionale - preferisce andare al di là di intenti così totalizzanti, in favore di quelle “illuminazioni” di musiliana memoria che ci portano al di là del brutale (e pulsionale) quotidiano verso una prospettiva di miglioramento personale e collettivo.
Una riflessione corale mirabilmente tesa fra la teoria e la prassi, di grande attualità, offerta a un prezzo ridottissimo in edizione rilegata a filo con risvolti.
Z. Bauman, A. Heller, La bellezza (non) ci salverà, ed. Il Margine, 2015.
(«Il Caffè», 22 maggio 2015; «Filosofia e nuovi sentieri», 27 maggio 2015)
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