Il go è il gioco più antico del mondo. Il go è l’“anti-scacchi”. Il go è l’arte della guerra. Il go è come la vita. Esiste un’infinità di modi in cui è possibile descrivere il gioco noto in tutto il mondo con il suo nome giapponese - “go” appunto, pur essendo nato in Cina con il nome di “wei-chi” - ma nessuno di essi rende giustizia alla sua complessità e alla sua multiformità: tanto per cominciare, non esiste ancora computer che possa battere un professionista (mentre per gli scacchi, pur tra luci ed ombre, è nota la vittoria di Deep Blue, nel 1996-97, contro l’allora campione del mondo Kasparov); e ciò nonostante abbia delle regole semplicissime. Il go è un gioco affascinante che spopola in Oriente (soprattutto in Cina, Giappone e Corea) e sempre più negli Stati Uniti; ma ancora marginalmente in Europa. Perché? È legittimo sospettare che sia perché il go è un gioco che riserva alla razionalità uno spazio limitato, ampliando quello della creatività?
Questa dei tre grandi intellettuali francesi, datata 1969, è da considerarsi un’opera letteraria ancor prima che un manuale: vi si delineano - con uno stile tra il serio e l’accattivante, avente l’esplicito intento di contribuire a diffonderlo - la storia del gioco, il suo regolamento fondamentale e diversi elementi di strategia (oltre a una notevole quantità di storie e aneddoti, in buona parte inventati). L’onnipresente polemica contro gli scacchi (che chi conosca il go puo comprendere e apprezzare appieno in tutta la sua ironia), trattato come un gioco for dummies, strappa il sorriso e fa riflettere. Quello che non sta in piedi - nonostante la suggestione - è il paragone con la vita spinto al di là dei limiti metaforici: è vero, nel gioco del go il caso non esiste (come non esiste nella realtà e, a dirla tutta, neanche negli scacchi); ma si tratta pur sempre di un sistema a stati finiti (cioè di un sistema dalle possibilità innumerevoli ma non illimitate), che non lascia all’inventiva personale nessuna possibilità di oltrepassare le regole imposte dalla sua costituzione intrinseca (e nessuna possibilità di immaginare una situazione ulteriore rispetto a quelle che una mente laplaciana potrebbe esaustivamente prevedere). Diverso è invece per la realtà, dove la libertà è davvero la facoltà di creare l’inedito (cioè di uscire perfino dalle regole stabilite). Il paragone degli autori tra il go e la scrittura affascina, quindi, ma non convince. Tutto sommato, poco importa, il go è un gioco che tutti dovrebbero avvicinare una volta nella vita: ma perché è bello, e non per astruse velleità metafisiche. D’altro canto, almeno ad oggi, nessuno è riuscito a esplorarne esaustivamente i confini. E c’è un’altra prerogativa a renderlo infine nobile fra i nobili: il suo sistema di handicap iniziali rende possibile una partita “ad armi pari” perfino tra un campione e un principiante. Altro che gli scacchi.
G. Perec, P. Lusson, J. Roubaud, Breve trattato sulla sottile arte del go, ed. Quodlibet, 2015.
(«Mangialibri», 27 maggio 2015)
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