martedì 14 aprile 2015

Voce, musica e dialetto. Intervista a Wanda Marasco

È un momento di grande intensità per il romanzo napoletano. Lo dimostra Wanda Marasco, candidata allo Strega con il suo ultimo Il genio dell’abbandono, già vincitore del Premio Neri Pozza: di formazione filosofica e dalla consolidata esperienza teatrale e narrativa, l’autrice ci fa strada in un mondo poetico e narrativo connotato dal senso dello smarrimento e ci mette a parte della durezza del forgiare una lingua adatta al racconto, dove la voce è importante almeno quanto la parola pronunciata. E, con l’occasione, ci parla anche di Napoli e del suo dialetto.

Il tuo romanzo Il genio dell’abbandono si basa sulla vita di Vincenzo Gemito, del quale ben pochi napoletani saprebbero dire qualcosa di più di “era un artista”. Perché lo hai scelto come protagonista di questa storia?
Gemito era ben noto in Italia e in Europa fino alla metà del Novecento. A sminuirne la fama è stato anche l’eccesso della mercificazione. Copie e falsi in vendita sortirono l’effetto di inquinare il giudizio intorno all’opera gemitiana. L’indifferenza della Storia ha fatto il resto. Ma i moti del tempo sono strani e qualche volta preparano suggestive coincidenze. Con il romanzo in uscita era già in atto una sorta di “rinascimento gemitiano”, con mostre tra Napoli, Roma e Milano. Con il romanzo in libreria arriva un assalto entusiastico di appassionati di Gemito, e non sono solo napoletani e cultori d’arte. Lettori comuni ringraziano per aver avuto la possibilità di conoscere il grande artista, dicono di aver capito quanta umanità incarni il personaggio Vicienzo. Vedono che nel delirio dello scultore, ci sono la volontà, la catastrofe e il sogno di tutti. Questo è il motivo principale per cui ho scelto Gemito. L’altro è nei luoghi di Napoli che abbiamo avuto in comune.
Il genio del personaggio è fonte di gioia e di disperazione a un tempo: lo scultore “ne fa una malattia”, come si dice, fino ad entrare in manicomio. Cosa c’è in questa vicenda al di là del noto binomio estro-follia?
Il “genio”, il soffio vitale che insegue Vicienzo, è il suo interlocutore privilegiato. Il binomio estro-follia in fondo mi interessava poco, era scontato. Di più tenevo a questa energia, questo vento-sciuscio che scorre come una coscienza tra l’uomo e il paesaggio, rappresentando per me il dramma del rapporto creatura e luogo, origini e destino, matrici arcaiche e matrici psichiche, subordinazione al dolore dell’utopia con cui si vive.
Si dice che Gemito amasse anche gli uomini, oltre le donne. Quanto c’è, nella sua scultura, del suo modo di intendere l’amore?
L’erotismo espresso da un artista nell’opera è un fatto complesso. Libido e ricerca artistica possono raggiungere un tale punto di fusione che il risultato è sempre terzo, altro, inedito. Non so se Gemito ha amato anche gli uomini. Non ho trovato documentazioni né storie in proposito. So che non volevo usare le dicerie come forma di ammiccamento. Credo che in Gemito l’amore (non importa se verso l’uomo o la donna) sia stato sempre antropofago, vorace, e poi un sentimento del “superamento” da realizzare facendo diventare il soggetto amato opera d’arte. Sembra che Vicienzo, appostato alle porte della ri-creazione, abbia atteso il drammatico momento di trasformarli, per ghermire alla fine il loro enigma umano e il proprio. Forse Gemito non ha mai vissuto, semmai ha ingoiato la vita facendo l’arte. Ma questo si può dire di molti.
Il tema dell’abbandono, della perdita, ricorre anche nelle tue poesie. È questo che tiene insieme, come fil rouge, la tua opera?
Sì. Il tema dell’abbandono, della perdita, è anche nei miei testi poetici. Insieme all’ultrasecolare conflitto tra natura e ragione, materia e spirito, cognizione e censura del dolore, sentimento del tempo e annichilazione. Il filo c’è, ma non può essere mai uno solo se davvero tiene insieme il vissuto, la coscienza, la scrittura, i libri e le opere che abbiamo amato.
Il libro è scritto per metà in napoletano. Potremmo definirlo un “romanzo bilingue”?
Prima di scrivere L’arciere d’infanzia e Il genio dell’abbandono non avevo mai pensato né scritto in dialetto. La scelta dell’impasto linguistico è nata da una necessità. Volevo una lingua della veridicità, una mimesi del parlato, una partitura vocale. Dialetto e lingua sono affidati, nel romanzo Il genio dell’abbandono, quasi interamente all’introspezione, fondano le voci segrete o svelate, la sostanza matrigna della città e, nella loro fusione, diventano lingua psicologica, rivolta, fantasia. Non un’operazione bilingue, dunque, ma una osmosi drammatica.
Molto spesso in narrativa si limita il dialetto a qualche spruzzatina di colore qua e là nei dialoghi, mentre tu ne fai una specie si sfondo linguistico sul quale l’italiano si staglia. Come nasce l’idea di usare il napoletano come “tinta dominante”?
Gemito non aveva fatto studi regolari. La città e la strada furono la sua educazione. L’idea di usare il napoletano non poteva semplicemente corrispondere a una “tinta dominante”. Era già lì l’idea, era nella dominanza del paese, nella sua complessità e nella emarginazione. Ecco la ragione anche sociologica e antropologica dell’uso di una lingua-personaggio.
È difficile scrivere correttamente il dialetto, tanto che la stragrande maggioranza degli autori che vi si cimenta… sbaglia, quando più quando meno. Qual è al riguardo la tua “stella polare”, per la grammatica e l’ortografia?
Certo, è difficile scrivere il dialetto, e prima di inviare il romanzo al concorso Neri Pozza ho chiesto a un esperto il controllo e le eventuali correzioni. Non parlerei di “modelli” per la grammatica e l’ortografia. La tradizione letteraria partenopea presenta, anche tra scrittori della stessa epoca, notevoli divergenze, soprattutto ortografiche. Addirittura nello stesso autore una parola può comparire scritta in due modi diversi. Ho cercato una “mediazione” utilizzando, quando possibile, le convenzioni ortografiche comuni alla maggioranza degli autori a noi più vicini, spesso semplificando l’ortografia per rendere il testo più comprensibile ai non napoletani. Riguardo morfologia e sintassi ho seguito spesso documenti, lettere, pagine del diario di Gemito, a cui mi sono ispirata riproducendo talvolta le frasi di Vicienzo, le parole che presentano alterazioni fonetiche, gli errori che in genere faceva. E l’errore in Gemito (ma lo sarebbe stato anche in un personaggio nato nei sobborghi di Parigi o di Londra) mi è parso subito aberrazione necessaria, forza espressiva, gesto, cardine del delirio e dell’utopia. Poi in un romanzo si infiltrano tutte le letture fatte. E per il napoletano qui ci sono, credo, echi di Basile, Viviani, Di Giacomo, Russo, Eduardo, Rea, Moscato.
Il genio dell’abbandono, nonostante l’abbondante testo dialettale, non prevede traduzioni infratestuali né chiarificazioni a margine: una scelta audace e ben riuscita. Credi tuttavia che ciò possa essere d’ostacolo al lettore extracampano? Come potrebbe venir impostata una traduzione per l’estero?
L’impasto linguistico funziona come un’onda musicale, una partitura, per l’appunto. È quello che mi hanno scritto i lettori, napoletani e non. Dove c’è una difficoltà di comprensione il senso generale e la fascinazione sonora intervengono a “esprimere” comunque. A un traduttore proporrei questo metodo: è già pronta una versione italianizzata del testo, che conserva la sintassi e la coloritura del dialetto. Il traduttore potrebbe usarla perché è fedelissima alla prima stesura del romanzo, potrebbe scegliere (come in genere si fa e si è fatto) espressioni gergali, realistiche e metaforiche, della lingua in cui dovrà tradurre.
Un consiglio a un giovane scrittore alle prese con il suo primo romanzo. E uno al temerario che volesse accingersi a scrivere un romanzo “napoletano”.
Gli unici consigli che potrei dare a un giovane scrittore sono scontati: leggere di tutto, scrivere per intima necessità, aspettare il tempo della decantazione, riscrivere, se necessario. E al “temerario” che volesse scrivere un romanzo “napoletano” direi che se l’esigenza interiore è forte può farlo di sicuro. Anche perché il romanzo, “napoletano” o “svedese” , se è davvero “romanzo”, scolla da sé e per propria potenza ogni etichettatura.
Nel tuo curriculum c’è tra l’altro una laurea in filosofia. Quanto incide questo aspetto della tua formazione sullo stile e sui contenuti di ciò scrivi?
Il romanzo può dirsi la ricostruzione drammatica di un “dolore della mente” che si interroga sulla Natura, la Ragione, la Storia, l’Arte, il senso dell’esistenza. La visione del personaggio è gaddianamente “ubiqua”, e lo è quella della scrittura, che usa pensieri, elucubrazioni e digressioni come un’inchiesta su materiali per così dire “filosofici”. Credo che si riconoscano, sia pure letterariamente trasformate, le tracce di Platone, Plotino, Spinoza, Kant, Hegel, Schopenhauer, Kierkegaard, Heidegger. E insieme a queste l’influsso dei “filosofi” fuori sistema, come Seneca, Lucrezio, Leopardi, Artaud, Borges, Giobbe.
Il tuo prossimo libro sarà ancora legato a Napoli? Quando potremo leggerlo?
Il prossimo romanzo sarà ancora ambientato a Napoli, ma tra una stanza, i vasci e le stazioni della memoria di una donna. Non posso dire altro se non che è strutturato come una narrazione ipogeotica che scava fino alla radice del male e del bene. Speriamo di farcela. Forse sarà pronto tra un anno.
(«Mangialibri», 13 aprile 2015)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano