giovedì 30 aprile 2015

Psicoromanzo e noir. Intervista a Sibyl von der Schulenburg

Sibyl von der Schulenburg è nata in Svizzera da due genitori - scrittori - tedeschi e ha compiuto i suoi studi accademici in giurisprudenza e in psicologia in Italia. Cresciuta in ambiente multiculturale e multilingue, ha poi viaggiato per lavoro tra USA, Cina e Giappone. Ama i cavalli (è stata vincitrice di premi professionistici) e, ovviamente... viaggiare. Il distillato delle tante lingue ascoltate e sedimentate in lei confluisce nello psicoromanzo, un genere nuovo che inizia dal noir e va oltre. Ma è solo il punto di partenza: con lei parliamo di linguistica, di come la narrativa possa essere strumento di integrazione e di emancipazione sociale, e del suo celebre antenato, il feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, che nel 1716 difese Venezia dai turchi a Corfù…


Lo “psicoromanzo”: che cos’è?
È un nuovo sub-genere che io abbino di preferenza al noir. È frutto di un’idea nata durante gli studi di psicologia, quando ho sentito l’esigenza di coreografare e circostanziare i casi clinici che studiavo. L’artigianato letterario era già presente in me, l’ho solo messo a frutto in maniera nuova. Lo psicoromanzo non ha nulla a che vedere con il romanzo psicologico, intende invece raccontare storie di disturbi e patologie psichiche offrendo dettagli tecnici col massimo della leggibilità: voglio che il lettore si diverta, i miei non sono libri da comodino. Qualcuno in effetti potrebbe dire che si tratta di spettacolarizzazione della psicologia.
L’idea di tematizzare il disturbo psichico nel noir risale almeno ai serial killer à la Hannibal Lecter. In cosa si differenziano da questi i tuoi protagonisti?
La caratteristica dello psicoromanzo sta, non tanto nella tematizzazione di un disturbo, quanto nel trattarlo in maniera quasi “clinica” includendo la rilevazione corretta dei sintomi, la diagnosi e una possibile terapia. La storia porterà uno o più personaggi a un percorso di trasformazione la cui conclusione non sempre è prevedibile. L’idea di affascinare il lettore con racconti di efferatezze commesse da psicopatici non è nuova, mentre forse lo è l’idea di raccontare la storia dal punto di vista del malato e prospettare possibili terapie tenendo conto del fatto che gli psicologi sono esseri umani. È di pochi anni fa una ricerca scientifica sulla disinformazione perpetrata dai film ai danni della schizofrenia, la patologia più comoda da impiegare per chi voglia fare spettacolo. L’ultimo a essere sotto accusa è “Le voci” di Marjane Satrapi, in cui lo schizofrenico segue il solito cliché del violento e non si accenna mai a possibili psicoterapie.
Certe volte sembra che non si possa fare del noir senza i soliti morti ammazzati, i soliti graduati, i soliti moventi. Quali sono i confini da esplorare in un genere così tradizionale e codificato?
Bisognerebbe avere una definizione unica di noir. Inoltre, molti romanzi non sono classificabili in generi precisi. I miei perlomeno non lo sono. Per me il noir è il romanzo che esplora le parti più oscure della psiche umana e per questo si avvale anche di scene di violenza. Però deve lasciare al lettore qualcosa su cui riflettere altrimenti si cade nel classico giallo in cui la parola ‘fine’ chiude davvero la storia. I miei romanzi sono interpretabili a vari livelli, dipende molto da cosa il lettore porta con sé e sono questi i veri confini del noir. Compito dell’autore è di gestire la scena in modo da renderla godibile a qualsiasi livello di lettura.
Definisci La porta dei morti il tuo “romanzo per ragazzi”. Perché?
A differenza degli altri miei psicoromanzi, La porta dei morti non ha scene di sesso, o meglio, ne ha una appena accennata. Le parafilie sono spesso parte di un quadro sintomatico e non rinuncio certo a scriverne. Ho descritto rapporti sessuali non convenzionali e mi sono occupata di parafilie curiose come ad esempio l’oculolinctus o il trucco erotico, ma ogni scena di sesso è strettamente funzionale alla storia. La porta dei morti ha tutti i requisiti di una buona favola classica: è originale nel tema e nello schema, lascia spazio alla fantasia e ai buoni sentimenti, è proponibile a qualsiasi tipo di lettore. Resta pur sempre uno psicoromanzo con la mia firma.
Che ruolo hanno le parlate locali (hai utilizzato, tra le altre, quelle della Toscana e della Sicilia) nell’ambientazione dei tuoi libri?
La lingua ha un’importanza enorme per l’essere umano. Ho scritto un saggio psicologico sul bilinguismo nel quale espongo una mia tesi sui rischi ai quali può portare la moda di forzare, nei bambini piccoli, l’apprendimento di lingue per domini non condivisi dalle persone di riferimento. Per uno scrittore, caratterizzare i personaggi attraverso il linguaggio è una regola non sempre rispettata. I dialetti aiutano in questo, inoltre, nelle espressioni dialettali si annidano concetti complessi, difficilmente traducibili in poche parole nella lingua ufficiale. Per me l’impiego dei dialetti è anche un elemento in più per differenziare i livelli di lettura: si possono semplicemente comprendere nel contenuto palese oppure, se si ha la fortuna di conoscerli, si può goderne più a fondo.
Che significa essere imparentata col feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg?
È già un’enormità essere la figlia di un personaggio come Werner von der Schulenburg, letterato antinazista di cui al mio libro Il Barone, ma essere geneticamente collegata a un grande condottiero è spesso un gravame. Entrambi i personaggi, che hanno segnato la mia vita come modelli, sono sempre presenti nei miei pensieri e condizionano le mie scelte, soprattutto quelle scomode in cui la moralità ha un peso predominante. Loro mi hanno insegnato che si può anche sbagliare, l’importante è l’essere sempre in buona fede.
A cosa stai lavorando adesso? Cosa ti stimola?
Scrivere e far scrivere. Lavoro molto come editor e coordinatrice di due collane di narrativa de Il Prato Publishing House, ma ciò che più mi entusiasma è far scrivere i partecipanti a “Scrittori Dentro”, il premio letterario riservato ai detenuti con sentenza definitiva. In quest’impresa si dimostra la forza terapeutica della scrittura, un effetto ben noto a psicologi e autori. Personalmente sono andata un poco più in là delle teorie tradizionali sostenendo che il confronto per la maturazione e l’evasione terapeutica debba avvenire attraverso i personaggi creati dall’autore, non solo attraverso la classica autobiografia che, se ripetuta in maniera non controllata, può invece sortire effetti perversi. Per incentivare la scrittura abbiamo sfidato i detenuti a scriverci le loro ricette, convinti che l’arte culinaria, l’unica arte sinestetica, abbia anche un risvolto letterario. È nato così “Cuochi Dentro”, una nuova storia, una nuova frontiera per chi sta dentro e chi sta fuori.
Com’è il tuo rapporto con i lettori?
Non credo che qualcuno scriva per se stesso. Si può scegliere di scrivere e poi lasciare il manoscritto nel cassetto, ma la scrittura è comunicazione; le storie nascono per essere raccontate. Io, come tutti i colleghi, scrivo avendo in mente un tipo di lettore e mi piace anche sapere cosa ne pensano gli altri delle mie opere. So benissimo che non si può piacere a tutti, ma sono sempre disponibile verso quelli che s’incuriosiscono per la mia scrittura o m’incontrano alle presentazioni. E poi sono disponibile sul web, sul mio sito www.sibylvonderschulenburg.com, sulla pagina Facebook e su Twitter dove coltivo relazioni con persone che mi seguono. Insomma, adoro il contatto con i lettori.
Cosa ci riserva il futuro della tua narrativa?
È in uscita un’opera derivata dal best seller di mio padre, il romanzo sulle gesta del feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg. Mi era stato richiesto da più parti di tradurlo in italiano e di dargli un taglio più moderno. Per Cristo e Venezia, era stato il grido di guerra in quel lontano 1716, quando il feldmaresciallo impedì ai turchi di usare Corfù come ponte per la conquista dell’Europa. Oggi quel grido è diventato il titolo del libro che ne racconta la storia. Ma un autore deve anche soddisfare i lettori e l’editore, per questo sto lavorando al secondo libro di una piccola serie che trova la base nel mio I cavalli soffrono in silenzio. È dunque in preparazione un altro psicoromanzo ambientato tra i cavalli che sarà un altro “testo che ti spinge e costringere a inseguire il bisogno assoluto dell’ultima pagina”, come ha scritto il premio Campiello Pino Roveredo del mio romanzo “Ti guardo”.
(«Mangialibri», 30 aprile 2015)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano