Ho sempre amato e odiato la pubblicità, quel “culto osceno delle voglie” (Maurice Bellet) che pur sa blandire e affascinare con tanta acutezza. Ho sempre detestato la sua convinzione che l’abito faccia il monaco, pensando che - se questo è ancora vero per molti dei miei simili, e non è del tutto falso nemmeno per me - sia anche colpa sua. Ho sempre pensato che dovesse essere abietta la vita di chi abbraccia lo slogan di ogni pubblicitario: “Ricordati di non trattare i consumatori da idioti. E non dimenticarti mai che lo sono”. Ma in realtà, al di là delle idiosincrasie più o meno ambigue, quello che mi ha sempre ripugnato della pubblicità è l’evidente intento di vendere di tutto e di più, soprattutto il superfluo. Ciò che trovai condensato in una bruciante affermazione dell’allora amministratore delegato di Monsanto, a proposito del mais OGM: «Mi sono seccato di tutte queste polemiche, i nostri sono i semi più studiati al mondo. Non ci interessa un fico quanto siano buoni o utili o pericolosi. Il nostro unico obiettivo è venderli, il più possibile». E allora mi dissi che non si poteva delegare il compito di valutare la bontà di un prodotto… al produttore; tanto meno all’agenzia pubblicitaria. Era il consumatore a dover fare questa valutazione; soprattutto, avrebbe dovuto valutare se la novità appena messa sul mercato… fosse veramente utile e degna d’interesse. Immaginai che la pubblicità venisse, come d’incanto, vietata per legge: e che venissero istituiti dei chioschi (l’idea è vecchiotta; oggi parleremmo di siti in internet) presso i quali la gente avrebbe potuto recarsi per informarsi a proprio vantaggio. Risultato? Film senza interruzioni, produzione di cose meno inutili e meno soldi buttati al vento. Cosa vuoi di più? Un Lucano, forse?
Almeno questo è quello che immaginavo. Solo la storia avrebbe potuto dirmi se mi sbagliavo, ma mi sa che questo finale non lo vedrò mai. Ho avuto però il grande piacere di avere tra le mani il bel libro di Marco Maggio, dal titolo In principio fu la pubblicità. Critica della ragione pubblicitaria (ed. Il Prato, con la Prefazione di Diego Fusaro), che si apre con la seguente affermazione: «Non resta altro mezzo per rimettere in onore la filosofia: si devono come prima cosa impiccare i pubblicitari». Per Nietzsche (che l’autore parafrasa) erano i moralisti, ma direi che per loro c’è tempo. (Parliamo di impiccagione metaforica, ovviamente: se leggiamo questo giornale, non abbiamo certamente più l’età per pensare a nulla di diverso). Un libro che sa bene di che stiamo parlando, perché l’autore ha fatto il copywriter presso un’agenzia pubblicitaria e ne ha di belle da raccontare, e su cui riflettere. Una per tutte: «Sii te stesso: scegli Pepsi», simbolo eloquente della massificazione della personalità, e del fatto che veniamo trattati, ogni giorno (alcuni studi calcolano che ciascuno di noi sia esposto quotidianamente a circa 7.500 stimoli pubblicitari al dì)... come degli imbecilli. Immaginate un mondo senza pubblicità: finalmente potrei scegliermi la macchina nuova quando ho veramente bisogno di cambiarla. Senza che nessuno debba suggerirmi né il come, né il cosa, né il quando. Sarebbe una nuova vita, finalmente da adulti. Sarebbe la libertà. Per tutto il resto… c’è sempre Mastercard.
(«Il Caffè», 27 marzo 2015)
venerdì 3 aprile 2015
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