Lei si è appena laureata in economia. Lui insegna all’università, e ha quasi vent’anni in più. Sarà l’enorme differenza a far funzionare anche in questo caso il cliché del professore che se l’intende con l’allieva? Forse, e si direbbe che la cosa funzioni anche niente male, se lei è disposta a raggiungerlo nel cuore della notte, presso quel condominio disabitato e a tirare tardi nel suo letto, ben sapendo che le rimarranno poche ore di sonno prima di doversi svegliare, a casa sua, per andare a iniziare il turno al Reykjavík Café. Dove si ritrovano anche altre persone - donne in particolare - che hanno qualcosa da dimenticare - o da raccontare, se solo ne avessero il coraggio, o se ci fosse qualcuno ad ascoltarle: - c’è Mía, ad esempio, che ha appena traslocato in un nuovo appartamento, ancora stipato di scatoloni: l’annuncio immobiliare diceva “intimo”, e lei ha scoperto troppo tardi che con quel termine si intendeva “piccolo, angusto e con un odore sospetto”...
Hai voglia di dire che ’sti gialli scandinavi sono tutti uguali. Che in fin dei conti è solo una moda come un’altra e tra un paio d’anni non se ne parla più. La verità è che quando sono belli e ben scritti - come in questo caso, anche se di giallo c’è poco o niente - è impossibile resistere. L’atmosfera del bar-isola immerso nel mare dell’inverno islandese - buio e dall’aria immobile come in un sogno natalizio - è avviluppante e lo stile dell’autrice, giornalista esordiente in narrativa, ma con le idee già ben chiare, cattura l’attenzione e ispira simpatia, anche con piccole cose come la “stempiatura a forma di logo di McDonald’s”, o la riflessione sulla differenza nello scorrere del tempo fra ubriachi e sobri. Hervör, Mía, Silja, Karen, quattro donne e quattromila storie di irrisolutezza legata a una ricerca dell’amore determinata ed estenuante, ci rafforzano nella convinzione: sentiremo ancora parlare del romanzo scandinavo. Molto, molto a lungo.
S. Jónsdóttir, Reykjavík Café, ed. Sonzogno, 2015.
(«Mangialibri», 12 marzo 2015)
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