domenica 1 marzo 2015

L’amore oltre le stelle. Intervista a Vito Mancuso su scienza e filosofia


Vito Mancuso (www.vitomancuso.it) è stato dal 2004 al 2011 docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell'Università San Raffaele di Milano. È autore, tra gli altri libri, di L’anima e il suo destino (2007), Disputa su Dio e dintorni (con Corrado Augias, 2009), Obbedienza e libertà (2012) e Conversazioni con Carlo Maria Martini (con Eugenio Scalfari, 2012). Dal 2009 è editorialista del quotidiano «la Repubblica». Per Garzanti ha firmato nel 2011 Io e Dio. Una guida dei perplessi, giunto all’ottava edizione, Il principio passione (2013) e l'ultimo Io amo. Piccola filosofia dell'amore (2014), a proposito del quale l'abbiamo intervistato.

Lei parla di amore chiamando in causa la scienza e le sue acquisizioni teoriche, dalla biologia alla meccanica quantistica. In che modo - e in che misura - è possibile farlo?
Ancor prima di essere un sentimento, l’amore è la manifestazione di una tendenza intrinseca all’essere stesso. Partiamo dall’immagine tradizionale dell’amore che gli antichi ci hanno trasmesso nella figura del dio Eros o Cupido che scaglia la freccia: è certamente un’immagine poetica - la si è sempre trattata così - ma è realmente solo questo? Perché la mente ha sentito (e continua a sentirlo: l’immagine è tutt’altro che desueta) il bisogno di rappresentare il darsi dell’amore attraverso l’immagine della freccia? È chiaro: perché la sente congruente, efficace, adeguata a esprimere il fenomeno fisico dell’innamoramento. L’innamoramento è di fatto un fenomeno fisico, che può essere pensato - come ho approfondito nel mio ultimo libro (Io amo. Piccola filosofia dell’amore, ed. Garzanti, N.d.R.) - come un’onda, proprio del tipo di cui parla anche la fisica. La definizione di “onda” data dai manuali di fisica è “perturbazione che si diffonde nello spazio trasmettendo energia ma non materia”. Penso che chiunque sia stato innamorato abbia vissuto su di sé l’esperienza di una “perturbazione”, che si è mossa dentro di lui spostando energia ma non materia. È effettivamente possibile, a mio avviso, stabilire un parallelo tra l’innamoramento e l’onda elettromagnetica; non è forse vero che il soggetto colpito dalla “perturbazione” si trasformi in un vero e proprio pezzo di ferro per il quale l’altro - o l’altra - non è né più né meno che… un grande magnete, che lo attrae irresistibilmente? L’amore è un fenomeno cosmico che investe tanto gli umani quanto ogni altro aspetto della realtà. E la cosa più sorprendente è che lo fa secondo modalità tutt’affatto simili.
L’amore è dunque molto di più del legame tra due persone. Che significa dire che esso ha “una dimensione cosmica che investe la natura della realtà intera”?
Significa quello che ci insegna la fisica, e cioè che non esiste nessun ente - a partire almeno dall’atomo - che non sia il risultato di una aggregazione. Le particelle subatomiche come gli elettroni e i quark - ci spiega appunto la fisica contemporanea - non sono da pensarsi come “puntini” e basta (quindi come qualcosa di solido), ma secondo un dualismo onda-particella: talvolta, a seconda di come viene preparato l’esperimento volto alla loro rilevazione, si manifestano o come onda o come particella. Questo per dire che il fondo dell’essere non è solido; lo diventa, ma a partire dal nucleo dell’atomo, cioè in seguito a processi di aggregazione. Questo vale per l’infinitamente piccolo come per l’infinitamente grande: anche le stelle sono frutto dell’aggregazione di atomi di idrogeno e di atomi di elio, così come le galassie sono aggregazioni di stelle. Dal punto di vista della biologia, i composti biochimici - come le proteine, gli acidi nucleici, gli zuccheri e i grassi che danno origine alla vita - provengono da aggregazioni successive di miriadi di macromolecole: dalla loro unione nasce la cellula vivente. Tutto nasce dall’aggregazione: essa è il fondamento dell’essere.
Anche dell’essere umano.
Certo. La parola “orgasmo”, che è la condizione necessaria per la creazione di una nuova vita (almeno per quanto attiene al soggetto maschile), ha la medesima radice di “organismo” e di “organo”, termini decisivi e basilari della biologia. Questo a significare che, quando parliamo dell’amore, parliamo certamente di un sentimento - è chiaro che la prima manifestazione dell’amore sia il sentimento, all’interno del mondo degli umani - ma questo sentimento a sua volta rimanda a quella logica di cui ho parlato finora: cioè quella logica cosmica che porta gli enti ad aggregarsi ad altri enti, quelli piccolissimi come quelli grandissimi.
Se si tratta di una cosa così innata e intrinseca a tutto ciò che esiste: perché è così difficile vivere liberamente e serenamente l’amore? Perché l’uomo rimane invischiato nelle tante autocensure e regolette morali tipiche della nostra cultura? Soprattutto: si può venirne fuori? È infine possibile vivere l’amore come libertà?
Comincerei col chiarire che è colpa della cultura soltanto in parte: è vero che sono tante le istanze culturali che tendono a trasformare il “fiore” dell’amore, sbocciato spontaneamente nel campo, in fiore di serra, e poi in pianta d’appartamento (ride); in una parola, a irregimentarlo. Però qui occorre chiedersi: com’è che queste regole sopravvivono al passare dei secoli, delle organizzazioni collettive e delle morali? Una parte va certamente addebitata alla società, che non è perfetta. Ma a mio avviso tutto nasce ancor più a monte, da quel sentimento delicatissimo e peculiare che è l’amore e che non è indipendenza. Se lo si guarda più da vicino
continua il teologo:
si scopre che il senso del precetto, della legge, della convenzione, non nasce semplicemente dall’imposizione eteronoma di una società cattiva: esso sorge piuttosto dalla dimensione più viva che è alla radice del fenomeno dell’amore, che è un fenomeno di dipendenza: si vuole che l’altro - o l’altra - dipenda da noi. E il legame (o il legaccio, se vogliamo evidenziarne l’aspetto negativo) è già insito in esso: ciò spiega come mai gli esseri umani, ancora oggi, si leghino tra di loro. In passato c’era il clan che assegnava a ciascuno il marito o la moglie, e c’era tutta una struttura sociale che in maniera pervasiva legava il singolo dalla nascita alla morte: non c’era spontaneità nell’amore, i matrimoni erano programmati eccetera eccetera. Ma oggi non è più così, almeno in Occidente: e tuttavia gli esseri umani sentono ancora il bisogno di legarsi. Perché dunque è così difficile ritrovare quella spontaneità originaria, oggi, dove la libertà individuale lo permetterebbe? Perché si tratta di un equilibrio delicato, perché se c’è l’amore - vorrei precisare che non sto parlando degli amori (che è tutto un altro campo, anch’esso a suo modo interessante per l’esplorazione intellettuale), dell’avventura, quella di cui canta Battisti, dove meno legacci ci sono, meglio è - insomma, se c’è l’amore, cioè quel sentimento assoluto che provoca un’attrazione irresistibile, allora c’è, per così dire automaticamente anche il desiderio del possesso, dell’esclusività. Quando questa cosa viene meno, si può probabilmente dire che anche l’amore, nel senso più pieno, sia venuto meno (del resto non c’è da sorprendersi: l’amore è energia, è qualcosa che va e che viene), o che forse sia entrato in una nuova fase del suo sviluppo.
Un po’ come se la morale codificasse a valle quel che l’amore, a monte, reca con sé.
L’esempio del comandamento “Non commettere adulterio” è a mio avviso indicativo al riguardo: non si tratta di una mera (e più o meno arbitraria o convenzionale) prescrizione, ma di qualcosa di costitutivo dell’amore. Lo si osserva nel paradosso di quelle amanti che reclamano a loro volta l’esclusiva, talvolta fino a pretendere di spodestare la moglie (e il reciproco vale naturalmente per la dimensione maschile). L’amore in definitiva vive di espedienti, come dice Platone, sempre tesi all’esclusività e in qualche misura alla dipendenza.
L’accento che Lei mette sulla relazionalità e sulla centralità della coscienza e della vocazione personale fa pensare alla lezione di Raimon Panikkar e Maurice Bellet: entrambi preti cattolici, entrambi fuori dal coro. Qual è il loro contributo alla Sua filosofia?
Panikkar e Bellet, due grandi maestri. In realtà è già troppo parlare di “contributo”: Bellet l’ho incrociato una sola volta a Città di Castello (in occasione del XXIII Convegno internazionale di studi organizzato al Teatro degli illuminati dall’editore l’Altrapagina, dal titolo “Per una fede critica”, N.d.R.), ma non c’è stata neanche l’opportunità di salutarlo come avrei voluto. Panikkar invece l’ho frequentato di più, ho partecipato diverse volte alle sue conferenze (ne ricordo una in particolare, a Milano) e una volta - su invito della curatrice della sua Opera omnia, Milena Carrara Pavan - sono stato a trovarlo in Spagna; lì ho assistito alla commovente scena del filosofo - adagiato in poltrona, che ormai non aveva più la possibilità di leggere da solo - al quale lei leggeva il mio libro L’anima e il suo destino, mentre lui annuiva con la testa come a condividerne le parole. Detto questo, però, devo chiarire che alla base del mio pensiero - quello depositato proprio in L’anima e il suo destino, dove ha preso forma e sostanza - sono arrivato per altre strade, e quasi a digiuno dell’opera di Panikkar. Non si può dunque parlare di un vero e proprio contributo del suo pensiero al mio: le fonti di cui mi sono nutrito sono da ricercarsi altrove. (D’altro canto è così di tutti i libri e di tutti gli autori: più che di esclusione deliberata si tratta di occasioni d’incontro). Ciò non mi impedisce di sentirmi “fratello” di Panikkar, per le tante convinzioni che condividiamo; ciò che provo anche per Teilhard De Chardin, autore nel quale oggi mi ri-conosco, mi ritrovo, pur essendo diventato così come sono senza averne tratto alimento in precedenza. Lo dico con umiltà ma anche con la gioia inestimabile di potermi sentire accomunato a questi due giganti dello spirito.
(«Filosofia e nuovi sentieri», 1 marzo 2015; «Il Caffè», 13 marzo 2015)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano