Al Ministero, dove lavora, lui è il dottor Guerra. Un funzionario qualsiasi, di un ufficio qualsiasi, nel mare di quella burocrazia anonima e informe (siamo alla fine dei ’60, ed è presto per dire “liquida” con cognizione di causa) che permette a individui dalla dubbia raccomandabilità di giocare a carte nel bel mezzo dell’orario di lavoro, ma poi vieta con intransigente risolutezza di pagare una sola lira extra a chi se la meriterebbe per la qualità del lavoro svolto. Lui ormai valuta sempre più spesso l’ipotesi di cambiare lavoro - al peggio di licenziarsi, perfino - pur di andarsene da lì, abbandonando quell’andazzo, i capi di nomina politica e lo “shcavallo”, la tecnica inventata da un suo collega per “rubare” la linea verso l’esterno anche dai telefoni non autorizzati. Ma finisce puntualmente per ripensarci. È normale che, in quelle circostanze, si abbia voglia di farsi degli amici un po’ più prossimi e affini, anche se questo può avere talvolta delle controindicazioni…
Una sorta di noir leggero e quasi scanzonato, questo di Federico Romeo, che ha bazzicato i meandri di vari ministeri, anche nella veste di sindacalista, prima di approdare alla scrittura. Un libro indovinato nel tono e nella descrizione, che non si lascia andare alla caricatura e allo stereotipo e che descrive la pubblica amministrazione con una certa aderenza anche rispetto all’oggi, a distanza di mezzo secolo rispetto all’ambientazione. Verosimiglianza che l’autore cerca di restituire anche tramite l’uso abbondante del dialetto (che mette in mostra le diverse provenienze - e mentalità - degli attori sulla scena), che però non funziona bene sul piano ortografico come invece riesce su quello espressivo.
F. Romeo, La palude di carta, ed. Città del sole, 2015.
(«Mangialibri», 9 marzo 2015)
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