La cronaca di una morte annunciata: si potrebbe descrivere così, con poche parole, la storia di quel modo di intendere la filosofia che - tutto preso dal rigore della definizione e dalla coerenza del procedimento - finisce per astrarre se stesso dall’oggetto d'indagine che pur ha sempre sotto agli occhi. Cioè la realtà. Questo è il punto di partenza del bel libro di Susanna Mati, dal titolo Filosofia della sensibilità (ed. Moretti e Vitali), che non limita la sua critica a quella filosofia accademica iperspecializzata che si compiace della propria inaccessibile autoreferenzialità, ma la amplia a tutti quei settori i quali - rinunciando per principio (cioè per statuto) ad indagare uno o più aspetti specifici della realtà - spingono la propria investigazione dell'essere sempre più avanti, fingendo ogni volta che il problema non esista, solo perché lo hanno lasciato fuori dalla porta di casa. Ne fa qui le spese, ad esempio, la filosofia analitica, che nelle parole dell’autrice è «evidentemente frutto di una patologia psichica».
Ma questa apertura del discorso, che cerca di offrire in una immagine sintetica tanto l’interesse quanto la simpatia suscitati da questo studio, di fatto non gli rende giustizia: Mati è lucida nell’argomentazione e misurata nei toni, e la sua analisi procede da una domanda ineludibile e cruciale: come può la filosofia - a qualunque aggettivo essa scelga di accompagnarsi: analitica, continentale, postmoderna, ecc. - non rivolgersi sempre e comunque al Tutto? Il Tutto che comprende inevitabilmente quel materiale incandescente e difficile da trattare che è l’esperienza umana, e in primo luogo la sensibilità. Ciò che il moderno pensiero astratto più odia, in effetti: sarà dunque un caso, si domanda l’autrice, che la filosofia delle origini si rivolgesse tanto volentieri al mito, forma di pensiero più ampia del mero (per quanto benvenuto) raziocinio?
La sensibilità non può non entrare a far parte della riflessione, a meno di non auspicare una filosofia… che abbia ben poco a che vedere con la vita. Una filosofia della sensibilità (una “estetica” nel senso originario e più pieno) è necessaria: anche se per essa si dovrà rinunciare alla perfezione dei sistemi intellettuali chiusi in sé, verso un pensiero libero, aperto alla novità e all’inatteso. Non si tratta di rinunciare al rigore, ma di non sacrificare a esso quegli aspetti della realtà che non possono rientrarvi (alla maniera di Procuste). Se il rigore non è in grado di abbracciare tutte le cose, è il rigore che va cambiato, non la realtà.
Quanto questo volume - in specie nel suo richiamo all’esperienza poetica - debba alla filosofia tedesca a cavallo del secolo scorso, è appena il caso di dirlo (ma l’invito è a leggerlo senza meno, questo libro snello quanto ricco). Da ultimo, proprio in virtù di quanto detto, non si concorda con l’affermazione di Flavio Ermini nella Postfazione, secondo la quale l’autrice ci parlerebbe di un pensiero “aperto a istanze ultra-filosofiche”. Si tratta piuttosto di istanze a pieno titolo filosofiche, dalle quali purtroppo certa filosofia - che ha rinunciato a essere tale, cioè rivolta al Tutto - ha preso indebitamente le distanze. Buona anche l’edizione, rilegata a filo con risvolti.
S. Mati, Filosofia della sensibilità, ed. Moretti e Vitali, 2014, pp. 115, euro 14.
(«Filosofia e nuovi sentieri», 11 febbraio 2015)
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