Su questo ha certamente ragione: lo capì molto bene Ludwig, triestino che, nei primi anni dell’ascesa di Hitler, si trasferì a Berlino per prendere parte al programma di studio sull’eugenetica: migliorare la razza si poteva, ne era sicuro, e voleva scoprire come. Poi, nel 1943, rientrò in Italia aderendo alla Repubblica di Salò e operò nel lager italiano di San Sabba, dotato di forno crematorio: insomma, se non si poteva perfezionare la razza ariana, si cominciasse almeno a togliere di mezzo quelle inferiori…
Anche Ludwig ha dovuto rompere le sue uova: ha ucciso molti uomini e donne, di ogni età, bruciandone i corpi e i ricordi. Senza remore, né pentimento. Il suo non è stato un male banale, à la Eichmann (secondo la celebre categorizzazione di Hannah Arendt), ma un male consapevole, deliberato e indirizzato a uno scopo preciso, mai rinnegato. Perché lui nel suo ideale ci ha creduto fino all’ultimo giorno della sua vita; e quelli che ha massacrato - direttamente o indirettamente - sono stati solo il tributo da pagare a un’ideologia che non ammette le mezze misure.
Moreno Gentili, nel suo L’inferno dentro. Confessioni di un collaborazionista (ed. Sonda) ci svela la coscienza di un collaborazionista che non ha ceduto né all’avidità né alla brama di potere e tanto meno, come molti suoi colleghi, al terrore della ritorsione: è stato invece un uomo che ha amato la sua vita da “scienziato” intransigente, il cui implicito motto era (come quello di tanta scienza deteriore dei nostri giorni): “Nessun limite alla ricerca”. Entrare nei percorsi della sua esperienza, dei suoi alibi e dei suoi fremiti, è di monito a un certo razionalismo morale imperante: a volte - e non di rado - il male non ha secondi fini, ma solo una inestinguibile sete di infognarsi nel suo stesso abisso.
(«Il Caffè», 20 febbraio 2015)
