venerdì 20 febbraio 2015

Je suis Charlie

Adesso che la tragedia di «Charlie hebdo» è alle nostre spalle, possiamo forse parlarne con un po’ di sangue freddo. Allora che rimane? Be’, quello che hanno detto gli assassini: “L’islam non si tocca”. Ma anche quello che ha detto il papa (parafraso): “Se sfotti uno tutti i giorni, prima o poi quello si inquarta”. Giusto, lo dico sempre anche ai miei bambini. E poi c’è quello che hanno detto i giornalisti della redazione di «Charlie»: “Se volessimo stare attenti a non urtare la suscettibilità di nessuno, il nostro giornale sarebbe formato da tutte pagine bianche”. Il problema in effetti è complicato: chi si può prendere in giro, e chi no? Se vanno esclusi i soggetti religiosi, perché non anche quelli politici? E poi: come fare nei casi di commistione fra i sue ambiti, come appunto per le tante teocrazie?
Resta, soprattutto, e senza appello, la condanna del terrorismo. Di matrice islamica, in questo caso. Che non implica una condanna dell’islam, ça va sans dire. Non più di quanto la condanna del terrorismo brigatista implichi una condanna del comunismo. Il terrorismo fa schifo sempre, che nasca in seno all’islam, o al fascismo cristiano (come nel caso di Utoya), o alla filosofia marxista. Quella che invece deve restare - ma che è sempre appesa a un filo - è la certezza che tutte queste cose - l’islam, il cristianesimo, il marxismo - non siano nemiche dell’umanità, ma che al contrario siano, e possano essere sempre di più, forze unificanti tra i popoli, volte alla pace. Tutt’altra cosa è il fanatismo, che trova nutrimento un po’ in tutti i terreni, anche i migliori.
Non c’è nessuno scontro di civiltà, soprattutto in Europa; nessuna guerra di religione, nessuna incompatibilità culturale o morale. Questo dobbiamo ricordarcelo sempre, e molto bene. Lo ha ricordato con parole chiarissime l’imam di Napoli, spiegando - all’indomani del massacro - che si è trattato di un’azione «disumana», «frutto di ignoranza», indegna di «persone dotate di ragione». Ricordando che «l’islam è un’altra cosa»: come il cristianesimo, infatti, l’islam è una religione che non ammette comportamenti che danneggino gli altri, per la quale «bisogna pensare al bene degli altri come se fosse il proprio, perché esiste una sola umanità e siamo tutti fratelli». Parole che i cristiani conoscono bene.
Cosa resta dunque? Nuovi margini di insicurezza sociale? Nuove politiche migratorie? Prurito per leggi speciali a base di tornelli e telecamere? In questo senso, niente più di qualche slogan per dei sindaci-sceriffi dal grilletto facile in vista delle prossime amministrative. Quello che veramente rimane è la convinzione che la pace si può, e si deve. Tutti insieme. Perché sono molte di più le cose che ci accomunano - le azioni quotidiane, le speranze, le intenzioni - che quelle che ci rendono diversi. La voglia di pace è la prima di queste.

(«Il Caffè», 13 febbraio 2015)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano