Se si volesse trovare un modo (riduttivo ma essenziale) per descrivere sinteticamente la nostra società attuale, si potrebbe dire che è quella società che ha perduto la capacità di trasformarsi attraverso la politica. Un po’ perché è la politica stessa ad aver ceduto il proprio ruolo (fondamentalmente tradendolo) ad altre istanze (quali ad esempio l’economia). Ma un po’ perché, più in profondità, si è smarrito quell’orizzonte di senso (anzi, la stessa fiducia nella possibilità di averne uno) grazie al quale, anche nel più angusto momento di “crisi”, si sperava di poterne uscire ripristinando in qualche modo la “normalità” (intesa come situazione di “non-crisi”, indipendentemente dal contenuto specifico). Siamo entrati, senza rendercene conto, in una serie di automatismi che ci hanno deprivati della facoltà di prendere in mano la nostra esistenza collettiva (come ad esempio le “invalicabili leggi” dell’economia, o la mitologica capacità dei mercati di autoregolarsi); ma forse questo attuale assetto di “crisi permanente” ha qualcosa da insegnarci al riguardo...
Myriam Revault d’Allonnes, docente francese di Filosofia politica all’École Pratique des Hautes Études, affronta il tema della libertà e della responsabilità collettiva a partire dal termine “crisi” e dalla sua evoluzione semantica nei secoli. Paradossalmente, la crisi - intesa nel senso odierno di qualcosa che tende a mutare forma, anziché ad estinguersi - può aiutarci a riscoprire che, anche dietro alla più disperata delle situazioni, non si cela nessuna fatalità ineluttabile, ma solo un uso non abbastanza audace della nostra capacità di incidere sul presente indirizzando il futuro. Argomentato attraverso l’analisi di Kant e di Descartes, di Bauman e di Rousseau, l’autrice ci spiega che questo fatalismo può essere una tentazione, forse perfino un alibi, ma che in nessun caso può sottrarre all’uomo la propria libertà. Da meditare.
M. Revault d’Allonnes, La crisi senza fine, ed. 0barra0, 2014.
(«Mangialibri», 21 febbraio 2015)
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