Siamo così sommersi dai tatuaggi (spesso stereotipati e insignificanti) che a volte ci viene da pensare che ormai per distinguersi si debba non averne uno, ma non averne affatto. Oggi il tatuaggio è per molti un modo come un altro per spendere i propri soldi, qualcosa che fanno tutti (al punto che si dovrebbe avere un motivo per rinunciarci). Ma non è sempre stato così: il tatuaggio per la nostra civiltà è stato un importante momento di rottura con l’estetica classica - che vedeva il bello sempre e solo in ciò che è naturale (il nudo greco e rinascimentale, ideale di perfezione) - offrendo all’individuo la possibilità di caratterizzare il proprio corpo, esaltando il gusto personale e l’autoaffermazione. Rivendicazione, protesta, espressione: ha ancora questa carica e questa valenza il tatuaggio per noi, nell’epoca del tatuatore-sotto-casa?
Alessandra Castellani, antropologa ed esperta di culture giovanili che insegna all’Accademia di Belle Arti di Napoli, spiega l’evoluzione del tatuaggio in Occidente, dalla censura che lo vedeva legato agli aspetti più selvaggi delle culture tribali (presso le quali era stato scoperto grazie ai viaggi degli esploratori) alla sua teatralizzazione nei movimenti di protesta che ne hanno fatto un’arma di dissenso (ad esempio il punk). Un’arte che non è stata fagocitata dalla moda né può venir ridotta alla sua commercializzazione di massa; il tatuaggio può ancora dirci molto su noi stessi e sul nostro corpo. E, qualche volta, può ancora stupirci.
A. Castellani, Storia sociale dei tatuaggi, ed. Donzelli, 2014, pp. 150, euro 22.
(«Mangialibri», 24 novembre 2014; «Pagina3», 3 dicembre 2014)
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