La camera d’albergo, l’infanzia felice in Transilvania all’ombra del cristianesimo ortodosso, gli studi di estetica nella capitale e la musica tzigana della vicina Ungheria, l’espatrio a Parigi e l’adozione della lingua frencese («un’esperienza terrificante»), l’ironia e il pessimismo (con qualche distinguo), l’esistenzialismo e la critica agli esistenzialisti, l’odio per la scrittura e l’amore per la lettura (soprattutto la rilettura), l’interesse per Simmel e Kierkegaard, la filosofia come esplosione in frammenti (à la Nietzsche), il potere e l’utopia, la noia e il senso della vita: Cioran si confessa, si interroga, si esamina, si diverte e - non potrebbe essere diversamente - prende in giro tutto e tutti, in primo luogo e come di consueto se stesso. Un uomo che crede talmente tanto nella catastrofe e nell’inutilità della storia ai fini della salvezza umana, da sentirsi slegato alla radice da qualunque Paese o gruppo: più che un semplice apolide, un “apolide metafisico”.
Un ritratto intenso e godibilissimo - ovviamente per frammenti - dello scrittore-filosofo franco-rumeno, al di là di ogni stilizzazione ufficiale e di ogni agiografia. Venti interviste, tra cui quelle di Fernando Savater e di Bernard-Herry Lévy; dal quale emerge non solo la preferenza, ma l’esigenza di uno stile aforistico ed a-sistematico, unico a poter cogliere la contraddittoria complessità del reale. Una lettura filosofica - che si interseca ben presto con la letteratura, la poesia, la musica - densa ma leggera, piacevole come una conversazione.
E.M. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, ed. Adelphi, 2014, pp. 362, euro 16.
(«Mangialibri», 27 ottobre 2014; «Pagina3», 4 novembre 2014)
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