sabato 29 novembre 2014

La malapolitica, il tarlo che rode il Paese. Intervista a Paolo Berdini

Paolo Berdini, urbanista e membro del consiglio nazionale del WWF, svolge attività di pianificazione e consulenza per le pubbliche amministrazioni. Ha pubblicato nel 2010 L’Italia fai da te, Storia dell’abusivismo edilizio e nel 2008 La città in vendita (entrambi con Donzelli). È editorialista del «manifesto» e del «Fatto quotidiano».

Che cos’è il dissesto idrogeologico, di cui si parla tanto?
Purtroppo se ne parla tanto e da tanto tempo, ma si fa ancora poco. Era il 1968 quando l’allora primo ministro Leone - in seguito all’alluvione del Piemonte che aveva causato una ventina di morti - disse che avrebbe stanziato la cifra di 100 miliardi di lire per il territorio, che non poteva continuare a venir tanto maltrattato. Dopo cinquant’anni, siamo allo stesso punto, con un’aggravante: tutti i propositi delle buone leggi che sono poi state scritte (come la legge Galasso dell’89), sono rimasti sulla carta, spesso per banali rivendicazioni di competenza (nessun ente cede facilmente la propria sovranità territoriale a terzi, soprattutto se si tratta di commissioni esterne di tecnici, che magari pretendono - giustamente - di imporre limitazioni o stravolgimenti di una certa importanza).
L’impressione è dunque quella di una continua diagnosi del male, cui non segue nessuna terapia.
Non è un caso che la terapia non cominci mai. La menzogna più insopportabile di questo periodo è quella che dà la colpa alla burocrazia (inetta, inerte e quant’altro), dimenticando che quella stessa burocrazia è stata infarcita di personaggi di stretta osservanza politica. Il problema non è dunque il procedimento amministrativo (e coloro che dovrebbero portarlo avanti): il problema è la politica, che non si decide a dare al dissesto idrogeologico la priorità che dovrebbe avere. Così la politica non sollecita la burocrazia; la burocrazia obbedisce alla politica e resta ferma. Il resto lo conosciamo: è uno Stato che ha rinunciato alla sua funzione principale, quella di tutelare la sicurezza dei propri cittadini. C’è qualcosa di più grave?
È solo un problema di volontà politica? Esiste veramente la possibilità tecnico-economica di porre rimedio al problema?
Sì, ci sarebbe, ma la volontà politica resta l’elemento determinante. Il cosiddetto decreto “sblocca-Italia” ne è l’esempio: si stanziano 110 milioni di euro per il dissesto idrogeologico, mentre se ne stanziano ben 3 miliardi per le grandi opere (tra le quali la Orte-Mestre). I soldi dunque ci sarebbero, ma vengono usati per altro. In più, pare che nessuno si accorga che spendiamo di più per i disastri che accadono che per la loro prevenzione: per l’ultima tragedia di Genova il conto provvisorio è di 400 milioni, solo per rimettere a posto le cose: e lo Stato (che ha 3 miliardi da parte) ne sblocca solo 110… è evidente che questo problema non ha nessuna priorità per la politica. La priorità purtroppo è la solita: l’ulteriore cementificazione del territorio.
Si potrebbero utilizzare al riguardo anche fondi di altra provenienza, magari europei?
Certo, perché alcuni progetti che pagheremo di tasca nostra avrebbero potuto essere finanziati dall’Europa, ma ciò non avverrà perché i progetti mancavano appunto di una pianificazione a lungo termine relativa al territorio (e dunque anche agli aspetti idrogeologici) che invece tanti altri Paesi europei hanno già. E ce l’hanno non sempre perché la loro classe politica sia migliore della nostra; ma perché loro conservano una cultura di amore per la loro terra che noi evidentemente abbiamo perduto.
Forse non è solo colpa della nostra politica, ma di un orientamento ideologico generale che appartiene a questo tardocapitalismo globale, che vede il progresso sempre e solo in ciò che è nuovo (anche se è peggiore di ciò che c’era prima) e che, per questo, non si prende nessuna cura del patrimonio esistente: il suo motto è “Andare avanti”, anche se dietro i ponti bruciano.
Non c’è dubbio che sia così. Il simbolo di questa mentalità potrebbe essere per noi il Bacchiglione, il fiume che ha dato la ricchezza alla nostra Vicenza fino a quando i vicentini ne hanno avuto cura; da un certo momento in poi, si è deciso di cementificare tutto e così pochi anni fa… anche Vicenza è finita sott’acqua. Non siamo più capaci neppure di far tesoro della storia dei luoghi. Quel cemento non è stato fonte di ricchezza, ma di impoverimento, visti i soldi che si sono dovuti spendere all’indomani dell’esondazione. È una questione di cultura: non riusciamo più a capire che a volte la ricchezza sta nella conservazione e nella cura, non nella crescita.
Possiamo allora leggere il problema ambientale che abbiamo a livello planetario come ciò che ci richiamerà all’ordine? Finalmente saremo costretti ad affrontare il problema nella sua totalità, e non solo la singola emergenza.
Credo proprio che la natura delle cose ci porti in questa direzione. Solo due anni fa il problema climatico veniva ancora negato, adesso per fortuna nessuno lo sostiene più. Il nostro territorio possiede delle debolezze intrinseche che andrebbero valutate e sorrette in maniera adeguata (si pensi ad esempio alla fragilità dell’intero Appennino, dovuta all’argilla). È questo il vero investimento per l’Italia: capire che la solidità del territorio oggi può renderci più ricchi domani. Ma il governo sempre guardare da tutt’altra parte: in direzione di altre grandi opere (per le quali, dicevamo, stanzia un importo quasi 40 volte superiore a quello per il dissesto) per le quali dovrà poi… fare altra manutenzione (che non verrà fatta, preferendole ancora altro cemento). Non potremo che andar sempre peggio.
Come è successo sull’Appennino l’anno scorso.
Esatto: una banale nevicata - quindi non un evento straordinario, tanto meno una “calamità” - che blocca l’Appennino per ben due giorni. 48 ore di blocco totale. È chiaro che è questa l’Italia che hanno in mente: un Paese diviso in due, tra le grandi città che continuano a svilupparsi (alta velocità, banda larga, ecc.) e… tutti gli altri, destinati ad essere abbandonati.
Poi magari si arriva alla guerriglia urbana, come nella fantascienza di Ballard.
Non si rendono conto di star scherzando con il fuoco: tanto per parlare della capitale, il sindaco ha tagliato circa 440 milioni in tre anni al trasporto pubblico per ripianare il debito dell’urbanistica scellerata degli anni precedenti. A cui sono seguiti almeno due episodi di teppismo urbano (per fortuna non siamo ancora alla guerriglia); ma poi si fa presto a passare da una cosa all’altra.
Insomma, se il problema del dissesto idrogeologico coinvolge tutto l’Appennino… non c’è parte d’Italia che ne sia esclusa.
Infatti. E in più c’è l’arco prealpino che andrebbe tenuto d’occhio. Territorio che soffre paradossalmente non per l’antropizzazione, ma perché la popolazione lo abbandona per emigrare in città. Tutti vanno via in cerca dei servizi e delle opportunità che solo la città sembra offrire, e nessuno rimane a prendersi cura - semplicemente abitandoci - del suolo.
Cosa potrebbero fare i cittadini, al di là della politica?
La prima cosa sarebbe riutilizzare le risorse abbandonate (ormai ce ne sono tante, dappertutto): la vecchia fabbrica delocalizzata, ad esempio, potrebbe venir utilizzata da una cooperativa che produca qualcos’altro. Oppure quei tanti piccoli tesori che conserviamo sparsi in ogni dove (e a cui non prestiamo nessuna attenzione, presi come siamo dai grandi musei e dai grandi eventi) potrebbero venir affidati a gruppi di giovani che se ne prendano cura ricavando un reddito. Sono cose che andrebbero stimolate e incentivate a livello centrale. Come l’agricoltura orientata al biologico. Modi semplici per continuare (in alcuni casi tornare) ad abitare i luoghi sfruttandone la ricchezza intrionseca, invece di dilapidarla.
Una specie di salto di qualità del volontariato, più organizzato, in direzione di uno sviluppo economico e territoriale nuovo, basato sul “piccolo”?
Proprio così. E non perché “piccolo” sia sempre automaticamente “bello”: tante grandi eccellenze che abbiamo vanno conservate e portate avanti. Ma adesso che alcune di quelle grandi realtà cominciano a venir meno o ad andarsene altrove, bisogna ripartire proprio da qui: dal piccolo. Il futuro è questo.
E per il dissesto idrogeologico in particolare?
Il primo passo sarebbe quello di non abbandonare i territori a loro stessi, di continuare ad abitarli, a prendersene cura con la piccola manutenzione ordinaria che ha una grande importanza generale. E continuando a coltivarli: è il territorio abbandonato quello che frana più facilmente. Prima parlavamo dei disastri del neoliberismo e qui ce ne troviamo uno proprio davanti: il governo Monti arrivò a tassare perfino le stalle, e i miei parenti delle Marche abbandonarono la loro attività perché ormai costava più di quanto rendesse. Ecco cosa significa “mettere a posto i conti” secondo alcuni; ed ecco poi quanto costa veramente, sulla media e lunga distanza.
E se la cura del territorio - in questi tempi in cui si parla tanto di riforma della Costituzione - venisse inserita nella nostra Carta come elemento vincolante?
In realtà a leggere bene questo c’è già, perché vi si trova scritto che lo Stato rimuove le cause della disuguaglianza tra i cittadini. E la fragilità del territorio è probabilmente la prima causa di disuguaglianza. Quindi ci sarebbe già un mandato costituzionale da mettere in pratica.
Cosa suggerirebbe di eliminare, subito, dall’agenda del governo Renzi, per inserirvi invece la cura del dissesto idrogeologico italiano?
Toglierei le grandi opere, senza dubbio. La Brebemi, tanto per cominciare. Spesso gli industriali sono i primi ad essere contrari, perché non appena si riduce il contributo statale saltano subito fuori a mettere in evidenza che la resa non vale la spesa.
Come nel caso delle centrali nucleari: decine e decine di progetti e preventivi per convincere la gente dell’esistenza di un risparmio, poi ogni volta che c’è un imprevisto è lo Stato che deve pagare (e non l’industria che ha sbagliato i conti).
Già, solo che gli industriali i conti se li sanno fare molto bene: quando c’è un errore, quasi sempre è causato dalla malafede. Avevano detto che la Brebemi “non sarebbe costata niente agli italiani”: ma non è vero, il decreto “sblocca-Italia” darà alla Brebemi ben 170 milioni, pari al deficit accumulato da questa società. Si dice sempre che l’industria deve salvare l’Italia dalla povertà, ma poi facciamo sempre il contrario: è lo Stato che finanzia l’industria. Capitalismo di Stato di matrice berlusconiana che continua ad andare avanti oggi, con Renzi.
Quando i nostri bambini ci domandano come mai dopo tanto tempo non abbiamo ancora risolto il problema del dissesto idrogeologico... cosa possiamo rispondergli?
Qualche tempo fa in Campania c’è stata la tragedia di Sarno, territorio molto friabile e molto vulnerabile all’acqua. I Borboni (che non eranno noti per il loro amore nei confronti dei popoli sottomessi) se ne erano sempre presi cura, investendo le loro risorse. Cosa che noi non abbiamo più voluto fare. Ma la cultura - come diceva Ernesto Balducci, uomo ed intellettuale a me molto caro - diceva che la cultura è un fiume carsico, prima o poi viene sempre fuori di nuovo. Ai bambini dobbiamo spiegare che bisogna saper far tesoro della lezione del passato: oggi possiamo essere tutti più ricchi se sapremo far tesoro di una cultura - come quella borbonica, appunto - che teneva nel giusto conto il bene comune. Non dovremmo dimenticarlo.
(«l'Altrapagina», novembre 2014)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano