Barbe Blanche è morto. Il suo târ - strumento musicale a corde - viene assegnato al primogenito Hossein; ma questi, nonostante gli sforzi per imparare, non riesce proprio a suonarlo. Non è solo una questione tecnica - gli dice il maestro - bisogna riuscire a entrare in sintonia con lui. Quand’era in vita, il târ era più di un oggetto qualsiasi cui era affezionato: se n’erano ben accorti quella volta che - per scherzo o per ripicca - gliel’avevano nascosto: la reazione era stata feroce. Quella specie di mandolone era un po’ come se fosse una parte del suo corpo; e ora Hossein si sente stretto tra il desiderio pressante di ricevere quell’eredità e l’impossibilità altrettanto schiacciante di onorarne il lascito. D’altro canto a suo fratello piacerebbe cimentarsi, ma lui non è il primogenito; non gli resta che accompagnare il maggiore in un luingo viaggio alla ricerca del miglior liutaio dell’Iran: devono andarci, è necessario dopo che Hossein - tentando e ritentando - ha rotto tutte le corde…
Concerto per mio padre è uno di quei libri che si definiscono “romanzo etnico”, suggerendo implicitamente che dovrebbero piacere per il solo fatto di raccontare ambienti e modi esotici. In realtà questo libro, nella sua brevità, che lo rende più intenso, è qualcosa di più: la storia di due giovani uomini, che con responsabilità e passione si dedicano anima e corpo alla loro “missione”, legati alle loro radici anche più che al loro futuro, alieni alle tante banalità cui siamo assuefatti. La musica pervade delicatamente ogni singola frase del racconto, in un alternarsi di suono e silenzio. Un’ottima prova per Yasmine Ghata, già autrice di La bambina che imparò a non parlare, edito anch’esso da Del Vecchio.
Y. Ghata, Concerto per mio padre, ed. Del Vecchio, 2013, pp. 128, euro 13.
(«Pagina3», 17 ottobre 2014)
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