Marco Ciriello conduce un esperimento interessante: far parlare i personaggi in modo spontaneo, ciascuno nella propria lingua; che per molti di loro è un italiano infarcito di dialetto napoletano (magari nella deteriore variante casertana) o, meglio ancora, un dialetto più o meno italianizzato. Per dare spazio a queste voci l’autore mette in piedi una narrazione corale quasi interamente nella forma di flusso di coscienza, con pochi ma divertenti dialoghi, che in certi passaggi rallenta il ritmo narrativo. D’altro canto l’esperimento sembra riuscito solo in parte; perché - forse al fine di rendere comprensibile lo scritto in tutta Italia - i personaggi si ritrovano a parlare spesso (contrariamente al proposito fondante) una lingua innaturale, ingessata, che nessuno in Campania userebbe per esprimersi. Problema cui si aggiunge (ma si riconosca che l’ambizione era titanica) quello dell’ortografia, scorretta e confusionaria: troviamo nel testo termini inesistenti; la stessa parola scritta in modi diversi; parole scritte non secondo l’ortografia ma secondo la pronuncia (il che è sbagliato di diritto, in quanto il napoletano è un dialetto che si legge e si scrive in due modi differenti; ed è sbagliato di fatto, perché il proposito non è mantenuto in tutto il testo, ma solo a sprazzi); parole scritte male tout court. Può darsi che Ciriello ne sia consapevole quando scrive che la lingua di questo libro è inventata; ciò non toglie che alla fin fine si tratti di una variante sgrammaticata del napoletano. Resta il racconto godibile di una giornata rocambolesca e l’audacia di chi - volendo ambientare la storia in un certo luogo - ha inteso rendere la genuinità immediata del parlato di quei posti, senza accontentarsi di caratterizzarli nominando qui e lì una strada o un locale per turisti.
M. Ciriello, Il Vangelo a benzina, ed. Bompiani, 2012.
(«Pagina3», 26 agosto 2014; «Magialibri», 2 settembre 2014)
