Si dice che viviamo nell’epoca della fine delle ideologie. Della fine di tutti gli -ismi. Del disincanto che non investe solo la spiritualità del mondo, ma la sua stessa razionalità. Siamo nell’epoca che viene dopo ogni cosa: quella del post-moderno (anzi: la successiva), del post-umano, del post-tutto. Sembra che tutto sia già stato visto, fatto, pensato. È il mondo del funzionamento puro, quello che viene al termine di ogni filosofia, ogni politica, ogni speranza. Il migliore dei mondi possibili.
Eppure, qualcosa continua a non andare: la natura stressata solleva problemi ambientali, la forbice tra ricchi e poveri continua a divaricarsi, si comincia a temere che il futuro possa essere peggiore del presente (e molti, dopo l’ultima crisi economica, già ne stanno gustando i prodromi). La favola che l’uomo racconta a se stesso - quella del paradiso capitalista-sviluppista che dispensa infinitamente felicità a tutti - stride sempre più forte con l’antica spinta dell’essere umano a sognare un mondo diverso. L’utopia. Quella cosa che non c’è, ma vorremmo tanto che ci fosse. Cos’è che frena l’avverarsi di questo sogno? Da un lato, certamente, la cattiva esperienza delle tante utopie naufragate nel passato anche recente, come ad esempio quella comunista (che più di tutte aveva fatto sperare giustizia all’Occidente). Ma è solo questo, o c’è qualcosa in più?
Luigi Zoja, nel suo ultimo Utopie minimaliste. Un mondo più desiderabile anche senza eroi (ed. Chiarelettere; già alla seconda edizione), affronta la questione da diversi punti di vista - economico, sociologico, psicologico - integrati in un discorso chiaro fin dall’inizio: «Gli errori dell’utopia non andrebbero risolti rinunciando all’utopia, ma rinunciando agli errori». L’uomo non deve smettere di pensare che la sua vita e il suo futuro siano nelle sue mani; non deve lasciarsi schiacciare dalla disperazione della sindrome T.I.N.A. (There Is No Alternative) propagandata da chi non ha a cuore il bene dell’umanità ma solo la preservazione dello status quo. Al contempo, deve fare i conti con se stesso, con quelle mentalità che costituiscono “il maggior mistero del nostro secolo”, quell’«accumulo di insensibilità e crudeltà verso il mondo e se stessi che gli uomini, se non intenzionalmente programmano, certo tollerano».
Può sembrare velleitario parlare di “mentalità” - qualcosa di impalpabile, o generico, forse perfino astratto - in un momento storico che ha bisogno di soluzioni concrete e urgenti. Ma - questa è la grande lezione dell’autore - è proprio l’aver sottovalutato l’importanza della mentalità individuale nello sviluppo di comportamenti collettivi, ad aver condotto alla situazione attuale, dove il singolo dispera di poter incidere realmente sui fenomeni globali e confida illusoriamente nell’avvento di un “eroe” solitario, stereotipo la cui prassi fallimentare è tanto ben documentata dalle rivoluzioni storiche.
Allora, come stanno le cose? Può davvero il singolo fare la differenza? E come, se non diventando quel singolo? La risposta è semplice e complessa a un tempo, risponde Zoja: perché da un lato è chiaro che anche il più piccolo dei comportamenti singoli può inserirsi in un movimento collettivo (o addirittura innescarlo) accrescendone la forza; dall’altro, questa forma di partecipazione anonima e invisibile richiede - da parte di chi la compie - una pazienza, un’umiltà e una fiducia che non sono tipiche delle personalità mediocri. Sta qui il vero coraggio: non nelle incursioni della guerriglia o nei gesti epici della politica internazionale, ma in quei comportamenti piccoli, apparentemente insignificanti e talvolta anche solo psicologici che l’uomo in cuor suo sa, anche senza vederlo, che andranno verso il migliore dei fini.
Luigi Zoja, grande intellettuale dalla formazione economica e psicanalitica junghiana che ha al suo titolo oltre dieci libri tradotti in altrettante lingue, offre al dibattito sul futuro una lezione di rara lucidità: l’eroismo oggi non passa più per l’intraprendenza dell’Unico, ma per la partecipazione e la condivisione dei tanti singoli. Nessun Dio salverà l’umanità; sarà l’umanità a salvare se stessa. «Crediamo che la nostra occasione sulla Terra, quella che chiamiamo vita, sia migliorabile come mai prima attraverso ragionevolezza e costanza. E, credendolo, la stiamo già migliorando». Perché, per dirla con Eraclito - molto più attuale di tanti teorici moderni della “fine della Storia” - «Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada».
L. Zoja, Utopie minimaliste. Un mondo più desiderabile anche senza eroi, ed. Chiarelettere, 2013, pp. 232, euro 13,90.
(«Pagina3», 16 maggio 2014; «AgoraVox», 23 maggio 2014; «Il Caffè», 13 giugno 2014)
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