domenica 6 aprile 2014
Non cambiare mai
Di ritorno da una gita fuori porta con gli amici di sempre finiamo per parlare in macchina di politica, di educazione, di cinema. E di musica. Cioè: di Sanremo.
«Avete visto l’ultimo Sanremo? Grande, eh? Uno spettacolo senza tempo». È Marco, l’entusiasta, lui era di quelli che ai tempi del festival in playback gridavano, con il sangue agli occhi: “Ridateci Sanremo!”. E ora che gliel’hanno ridato, è più felice che mai.
«Se per “senza tempo” intendi dire che è uguale a quello di trent’anni fa, allora non ti sbagli. Potresti ascoltarne uno a caso, preso dai ’90, e ti sembrerebbe quello dell’anno scorso. Hanno tutti lo stesso sound». È Fabrizio; lui Sanremo lo odia, e ama invece il rock inglese, il grunge e la shoegaze.
«Il sàund, il sàund. Ma parla napulitano! Che c’entra il sound? La musica italiana è bella perché è italiana. È la poesia del testo che la rende famosa nel mondo. La musica è solo un accompagnamento». Franco è sarcastico, se la gode di più se rimane neutrale. Almeno per ora.
«Hai visto? - dice Marco a Fabrizio -, perciò si chiama “italiana”, perché sono le parole che contano».
«E perciò si chiama musica “leggera” - fa Franco mettendoci il carico da novanta -, perché la musica non conta niente».
Fabrizio è già su di giri, vorrebbe dire mille cose e non sa da dove cominciare. «Ma se i testi sono così importanti, perché non scrivono poesie e le leggono ad alta voce? Sai quanto si risparmierebbe di mixaggio? Dovete per forza chiamarla “musica”?».
«Sei il solito estremista - fa Marco -, per te la musica o e tutto o è niente. Ma tu non fai la stessa cosa, a parti inverse? Non ascolti anche tu delle canzoni senza capire una sola parola del testo?».
«Certo, e lo faccio proprio perché è “musica”, perché è il testo a contare poco o niente. Io non critico il fatto che ti piaccia la musica leggera, ma che tu pretenda di chiamarla “musica”. Chiamala “leggera” e basta».
«Per la verità - si affaccia Franco -, un po’ ha ragione anche lui. È inammissibile che arrivi a Sanremo un “big” come Ron, che è un’icona del genere, piaccia o non piaccia, e si metta a cantare le stesse canzonette di quando ha cominciato. Uno si aspetta che arrivi il masto e faccia i fossi a terra, che sbaragli la concorrenza per originalità, profondità della ricerca musicale, quel suo sound inconfondibile, ecco, diciamolo: si dovrebbe distinguere e invece è tale e quale agli altri».
«Ma voi continuate a non capire che di questa “ricerca musicale” non se ne frega niente nessuno. Mica siamo al conservatorio? La gente ascolta Sanremo perché vuole immedesimarsi nelle storie che le canzoni raccontano».
«E quindi - dice Fabrizio -, siccome la gente è scema, quando sente cantare canzoni cretine, si infervora e l’audience schizza alle stelle».
«Be’, i fatti sono fatti» commenta Franco, minimale.
«È tutto chiaro - aggiunge Fabrizio -, quello che snerva è la retorica sulla canzone italiana, sulla “giuria di qualità”, come se veramente stessimo parlando di musica e non di semplice costume. Questo è quello che manda fuori dai gangheri: che si confonda la lana con la seta».
«Continui a non voler capire che è il testo il motore di tutto, la poesia, che è sempre stato il punto forte dell’Italia, fin dai tempi di Dante» dice Marco, con l’evidente intento di scatenare la rissa.
«E la “benzina” di questo “motore”, la musica, è identica a quella inglese, solo che qui arriva con quindici anni di ritardo».
Meno male, siamo quasi a casa. Per un attimo ho temuto ci scappassero morti e feriti. Facciamo gli stessi discorsi di trent’anni fa. È proprio vero: Sanremo non passa mai di moda.
(«Il Caffè», 28 marzo 2014)
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