venerdì 5 luglio 2013

S. Harris, Il paesaggio morale, ed. Einaudi, 2012

Nonostante la corposità della Bibliografia e dell’apparato critico e l’apparente autorevolezza dell’autore, va purtroppo classificato come deludente l’ultimo libro di Sam Harris, Il paesaggio morale (Einaudi).
La sua indagine, condotta su un terreno prevalentemente neuroscientifico, investe il rapporto tra la morale, la scienza e la religione. Ne sintetizzo il percorso: l’uomo adotta una morale per garantirsi la maggior felicità possibile; la felicità dipende essenzialmente dal benessere materiale (compreso quello cerebrale); nessuno meglio della scienza può sapere come studiare e produrre il benessere fisico; in conclusione, solo la scienza può decidere razionalmente sulle questioni morali. E le religioni, le morali tradizionali, il senso comune? Roba d’altri tempi; solo gli scienziati possono guidarci oggi verso la morale del futuro.

Per quanto caricaturale possa sembrare, garantisco che non lo è. Credo che Harris sarebbe il primo a sostenerlo; di fatto, spende l’intero libro proprio ad argomentare quest’impalcatura. La quale ahimé non regge; e non perché - come lui afferma nelle tante pagine di chiusura dedicate all’apologia di se stesso - si voglia portare avanti una difesa a spada tratta e a priori della religione in generale o di questa o quella morale in particolare: la “guerra delle idee” non è un problema di chi lo contesta, ma dell’autore (che utilizza, fin dalla quarta di copertina, termini guerreschi come appunto “difesa”, “trincea” ecc.). La debolezza del libro consiste nel dare per scontato ciò che si dovrebbe dimostrare: cioè che la morale - così com’è oggi concepita, religiosamente e filosoficamente - è un retaggio e un’illusione e che la sola vera base possibile per la morale è di matrice neurobiologica. Ora, pur volendo sorvolare sull’ingenuità del suo approccio monoculturale (problematico in generale, ma insostenibile in particolare quando le altre culture vengano apertamente chiamate in causa e liquidate in due battute) e della solita mitologia dei ‘fatti puri’, quello che resta è che a tutt’oggi non è possibile dimostrare che (p. 6) “il nostro benessere dipenda interamente da eventi terreni e dalla condizione del cervello umano” (in ogni caso il libro non riesce a dimostrarlo). Ciò per un motivo molto semplice: come in ogni riduzionismo, Harris confonde la realtà dell’uomo con il modello offertone dalla prospettiva prescelta: nel suo caso, quella delle neuroscienze. Presuppone che l’uomo sia nient’altro che il proprio cervello, e dopo lungo esame finisce per stabilire che tutti i problemi dell’uomo possano venir risolti agendo sul cervello. Data quest’impostazione, sarebbe stato sorprendente giungere a una conclusione diversa. Tuttavia anche in questo caso, come appunto in quello di tutti i riduzionismi, sembra di assistere alla barzelletta in cui uno scienziato stacca una alla volta le ali a una mosca, ogni volta ingiungendole di volare e ogni volta assistendo al faticoso decollo. Staccata l’ultima ala, osserva che la mosca non vola più; e conclude: ‘abbiamo dimostrato scientificamente che la mosca, privata delle ali, è sorda’.
Questo basterebbe a mettere in guardia da un certo ottimistico semplicismo nell’affrontare questioni della massima importanza; soprattutto, questioni che richiedono di essere affrontate in maniera moderna, cioè dialogale e interculturale, anziché al vecchio modo degli uni contro gli altri (scienziati contro filosofi, teologi contro psicanalisti ecc.). Nell’odierno mondo globalizzato, come nella migliore tradizione della conoscenza umana, è ancora più vero che il successo di uno è quello di tutti. Ora, se ciò basterebbe - come dicevamo - a sconsigliare questo autore (o quanto meno questa sua indagine) va detto in più che la lettura è resa irritante dal suo tono saccente, spinto fino alla denigrazione degli avversari: ecco che Marilynne Robinson, il cui torto è di averlo criticato dalle pagine del Wall Street Journal, è tacciata di “farfugliamento antiscientifico” (p. 244; al punto che nemmeno le risponde, “per non scendere troppo in basso”: ivi); così John Horgan, altro recensore del libro, scrive cose “illogiche” (ivi) e Deepak Chopra è “goffo, evasivo, frettoloso e bilioso” (p. 245); ancor peggio di loro se la cava Collins (p. 213), che neppure lo ha criticato ma che non di meno viene accusato di essere talmente lontano dalla realtà da dare l’impressione “di non aver mai letto un giornale”. Si può tranquillamente fare a meno di questo libro. Il dibattito morale non ne morirà.

Indice
Introduzione. Il paesaggio morale
I. La verità morale
II. Bene e male
III. Le credenze
IV. La religione
V. Il futuro della felicità
Postfazione
Note
Bibliografia
Indice analitico

L’autore
Sam Harris, neuroscienziato, scrive su diversi giornali, tra cui “Newsweek” e “New York Times”.

Link
www.samharris.org (pagina personale dell’autore, in inglese)
http://it.wikipedia.org/wiki/Sam_Harris (pagina di Wikipedia dedicata all’autore, in italiano)

(«ReF-Recensioni Filosofiche», maggio 2013)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano