Non sbaglia chi definisce Edgar Morin un intellettuale “di sinistra”: lui stesso - già autore di La mia sinistra e Pro e contro Marx - riconosce nel suo ultimo I miei filosofi (ed. Erickson) il proprio debito nei confronti di Karl Marx e della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse).
Ma, con una certa sorpresa, si scopre che sono tanti altri - e di ben altro orientamento - i filosofi di cui Morin riconosce l’influenza: da Eraclito a Heidegger, da Montaigne a Hegel, da Cartesio a Rousseau. Ai quali affianca anche molti, per così dire, non-filosofi: romanzieri come Dostoevskij e Proust, un musicista come Beethoven, un sociologo come Ivan Illich, la psicanalisi e i “pensatori della scienza” (von Neumann, Bohr, Kuhn, Popper ecc.), perfino due maestri dello spirito come Gesù e Buddha.
Tuttavia, a guardarla più da vicino, la cosa si fa molto meno sorprendente. Infatti, quella che in un altro autore potrebbe sembrare una “ammissione di colpa”, la dichiarazione di un eclettismo dispersivo e forse fuorviante, è invece in Morin null’altro che l’attestazione di un percorso polimorfo che lo ha portato a formulare la sua teoria della complessità, nella quale i vari saperi dell’uomo - anziché attardarsi in conflitti retorici e in sterili rivendicazioni gerarchiche - vengono ricondotti a un’armonia in cui tutti sono reciprocamente indispensabili. In accordo con la nota lezione del filosofo catalano Raimon Panikkar, richiamato al termine della Presentazione dell’edizione italiana.
Morin è un “gigante del pensiero contemporaneo” - per dirla con le parole del curatore del volume, Riccardo Mazzeo - che questo libro presenta in maniera più accessibile di altri capolavori teoreticamente più impegnativi. In una pregevole edizione rilegata a filo.
(«l'Altrapagina», luglio-agosto 2013)
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