Questa storia inizia in Russia, oggi, con una madre che abbandona il figlioletto alla nascita, dopo averlo partorito in casa per poi lasciarlo in ospedale, tra la vita e la morte, otto giorni dopo. Konstantin è il suo nome; ma non glielo ha dato lei, bensì gli operatori dell’orfanatrofio che lo ha accolto in fasce e che oggi lo ospita, a diciannove mesi di distanza.
Dopo un po’, due coniugi di Taranto decidono di adottare un bambino. Così si iscrivono a un’associazione di adozioni internazionali di Napoli (incredibilmente, è la più vicina tra quella accreditate per l’Europa), sborsa una cifra di diverse migliaia di euro per ricevere i servizi di intermediazione e comincia la trafila burocratica. Si parte dalle cartelle cliniche, una specie di campionario di bambini candidabili all’adozione, ciascuno dei quali abbandonato dai genitori naturali perché variamente malato: c’è chi ha subito il trauma da parto, chi è malformato, chi presenta un ritardo o una deficienza d’altro tipo. Non è così che se l’erano immaginata. Per lo più si tratta di casi di poca rilevanza, che magari non avranno ripercussioni in futuro. Chi lo sa. Si sfogliano le cartelle, si “opzionano”, si sceglie. L’associazione prende contatti con il tribunale competente, segnala l’opzione, invia i documenti. Soldi e tempo vanno via come niente. Dopo mesi e mesi permettono ai due di andare a vedere il bambino in una seduta collettiva: lui ancora non sa niente, non può capire, ha meno di un anno. Poi, dopo altri mesi, finalmente, un incontro vis à vis: due ore, non di più, se no il bambino si affeziona anzitempo. Dopo un viaggio di quasi due giorni quelle due ore gli sembrano un’eternità. Eppure passano così in fretta. Al rientro l’associazione gli dice che la cosa sta andando avanti e che si aspetta la pronunzia del giudice territoriale. Una formalità, si dice e si ripete, ma quante ce ne sono. L’udienza è fissata per aprile, ormai è passato un anno, Konstantin comincia a farsi grande, bello: lo guardano reagire alle loro coccole, lo stringono, lo sentono parlare, è un sogno d’amore che prende forma, diventa carne e sangue, non proprio sangue del tuo sangue ma, insomma, cominciano a pensare che stanno per avere un figlio. Anche loro. Sembrava impossibile e invece eccolo lì. Intanto la madre naturale ha trasmesso una memoria nella quale dichiara la sua intenzione di rinunciare al figlio. Ma ad aprile il giudice rinvia la seduta per un vizio di forma; ci si aggiorna a giugno. A giugno la dichiarazione della madre naturale non è più valida: la legge è cambiata, la donna va convocata nuovamente, di persona. La chiamano e quella risponde con un SMS: dice che è malata, non può venire. Il giudice va per le spicce e la manda a prendere a casa dall’assistente sociale, che la conduce in tribunale praticamente con la forza; a domanda, la donna risponde che in effetti non sa se tenerselo o meno questo figlio: ci deve pensare. Il giudice le dà tre giorni: al terzo giorno lei dice che lo rivuole. Ora ha un mese per produrre i documenti necessari a riprenderselo.
I coniugi di Taranto sono atterriti, umiliati, avviliti. Dentro e fuori dagli uffici della burocrazia russa, senza l’aiuto di un legale, dove non tutti parlano inglese e nessuno italiano, ascoltano tutto, firmano tutto, dicono sempre di sì. Tutto quello che volete, sembrano dire con lo sguardo, purché torniamo a casa con nostro figlio. C’è infatti un’ultima speranza: che la madre non presenti i documenti richiesti e che il bambino resti in orfanatrofio. Così la pratica di adozione si riaprirebbe e loro (pur dovendo rifare tutto dal principio, senza nessun diritto di precedenza) potrebbero tentare nuovamente di averlo. Potrebbero continuare a sognare la sentenza di affidamento, anche se in Russia la madre naturale ha comunque 35 giorni di tempo, dopo la sentenza, per “ripensarci”.
I due non dormono da un pezzo, lei non riesce più ad andare al lavoro. Cominciano a farsi tante domande, qualche volta pensano - travolti dalla rabbia - che se lo avessero comprato avrebbero risparmiato tempo e denaro. Si domandano se il bambino sia veramente tutelato da queste leggi, senza le quali starebbe fra le loro braccia da oltre un anno.
Questa storia meritava un finale diverso, forse non “felice”, ma di certo molto migliore. A volte la vita è una pessima scrittrice.
(«Il Caffè», 21 giugno 2013)
sabato 22 giugno 2013
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