Il mio meccanico è molto in gamba: dopo esser rimasto per strada con ogni tipo di vettura - Skoda, Citroen, Fiat, perfino un Ford Transit - finalmente, da quando l’ho incontrato, viaggio senza sorprese (tranne quelle che ogni tanto mi fa lui alla fine dei suoi interventi, nel presentarmi il conto; ma questo è un altro discorso).
Peraltro il mio meccanico è uno di quei casi piuttosto frequenti di “filosofo del quotidiano”: avvezzo a speculare su qualunque argomento - in specie quello del giorno, appena appreso alla radio - e a condividere le proprie riflessioni, quasi sempre non richiesto e spesso anche contro la volontà degli astanti, che fanno di tutto per cambiare discorso, senza successo. Tuttavia l’ultima volta ha stupito anche me che lo conosco da anni. Ecco come.
Mio fratello, bontà sua, mi aveva regalato qualche giorno prima un telefono Samsung con Android e io avevo installato fra le altre cose, dietro consiglio di un amico, la nota chat di nome Whatsapp, cosa che stavo appunto commentando con Gigino (il meccanico). Mi chiede di che si tratti - non ha mai chattato - e io provo a spiegargli in breve che è come mandare SMS, però gratis. “Quindi è una cosa inutile, che esiste già” fa lui (qui faccio di tutto per non parafrasarlo), e non riesco a dargli torto. “Ma è normale che ce l’abbiano tutti - continua -. Più ci chiudiamo ognuno a casa sua e più la solitudine fa paura. La solitudine oggi è vietata. La cosa strana è che l’hai dovuto installare tu; secondo me doveva stare già caricato dalla fabbrica”.
Notevole. Soprattutto quando, di ritorno a casa, mi sono reso conto - non me n’ero accorto - che c’era una analoga versione del software per la chat, già installata dal produttore. Sono abbastanza sicuro che il mio meccanico non abbia letto Bauman, in particolare il suo ultimo Communitas. Uguali e diversi nella società liquida (ed. Aliberti). Così come sono sicuro che scrollerebbe le spalle con sufficienza se sentisse Bauman affermare che la falsa sensazione di vicinanza agli altri (agli “amici di FaceBook”) indotta da internet non è altro che «una sorta di illusione che ci aiuta a sopravvivere in un’epoca come la nostra, in cui tanti temono di essere esclusi».
Ormai sono tanti i libri che leggo con la sensazione di ascoltare Gigino; i più grandi luminari mi parlano a tratti con la sua voce. Il discorso del sociologo di Leeds continua e tocca la crisi dell’educazione, la tensione (e l’equilibrio necessario) fra destino e volontà, il passaggio dal proletariato al precariato («per quanto poco rimanga della classe operaia, i suoi membri continuano ad alzarsi ogni mattina e a guardare se i giornali riportano annunci di bancarotta o esuberi. Se per oggi non trovano nulla ne sono sollevati, ma non smettono di preoccuparsi di ciò che potrà accadere domani. Sono precari»).
Non vedo l’ora di tornare da Gigino e di parlare di nuovo con lui di tutte queste cose. Mi costerà un po’, lo so già; ma sono sicuro che ne sarà valsa la pena.
(«Il Caffè», 14 giugno 2013)
sabato 15 giugno 2013
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