lunedì 23 maggio 2011

La vera rivoluzione è quella nonviolenta. Intervista a Tonino Drago

Antonino Drago (Rimini, 1938), fisico e nonviolento italiano, già docente di Storia della Fisica all'Università degli Studi di Napoli Federico II, insegna attualmente Difesa civile non armata e nonviolenta a Pisa. Dagli anni ’60 impegnato nell'ambito dell’obiezione di coscienza, della educazione alla pace e nonviolenza, è stato il primo Presidente (2004-2005) del Comitato di consulenza per la difesa civile non armata e nonviolenta della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nel 2000 ha ricevuto il Premio nazionale Cultura della Pace «per il suo impegno in favore della Difesa Popolare Nonviolenta e per la ricerca di metodologie alternativa alla guerra per la risoluzione dei conflitti». Autore di diversi libri, ha partecipato al volume Pensare la scienza (ed. l’Altrapagina, 2004).

La nonviolenza viene associata nell’immaginario collettivo alla figura di Gandhi e alla storia dell’India. Si tratta di qualcosa del passato? O si può ancora parlarne oggi?
Di fatto Gandhi ha compiuto tre riforme: della religiosità (indù), dell’etica (estendendo il prinicipio di nonviolenza alla vita sociale) e della politica (tornando, all’inverso di Machiavelli, a legarla alla politica). Inoltre Gandhi, come dice Lanza del Vasto, ha
realizzato “tre miracoli storici: una liberazione senza effusione di sangue, una rivoluzione sociale senza rivolta, il por fine ad una guerra [Bombay 1947, tra indù e mussulmani]”. Con lui l’India si è liberata per prima dal più grande impero coloniale che sia mai esistito nella storia. È chiaro che ciò fa da ideale ai popoli che oggi nel mondo vogliono liberarsi dalle oppressioni della fame, della disoccupazione, dell’economia finanziaria, delle strutture militari (nucleari).
Quali sono le rivoluzioni nonviolente cui abbiamo assistito? In particolare, che cos’è una “rivoluzione nonviolenta”?
Siccome all’Università la scienza politica non sa capire le rivoluzioni, ancora i mass media ripetono la frase stolida (perché impersonale e riferita ad un oggetto, non alla politica): “La caduta del muro di Berlino”; essa non c’entra nulla con Tien An Men e i dieci anni della liberazione della Polonia. Nel 1989 tutti gli Stati del tempo programmavano secondo l’unica strategia razionale possible (!) 200 milioni i morti a primo colpo nucleare. Rispetto a quel numero, come definire delle rivoluzioni che hanno vinto senza fare quasi mai morti? Tanto più che ci hanno liberato da una oppressione inaudita nella storia: la spartizione dei popoli del mondo secondo il potere (poi nucleare) dei quattro grandi a Yalta. Oggi i potenti che sono rimasti al potere, temendo che tocchi anche a loro, cercano di oscurare le coscienze dei popoli, quelli che sono gli attuali proagonisti politici e che perciò quella frase stolida (ma furbastra) non vuole nominare. Ma definiamola: una rivoluzione nonviolenta è la gestione secondo l’etica positiva dell’azione politica più estrema ed esplosiva, quella che per un secolo tutti gli alternativi occidentali progettavano come la più distruttiva del passato e di chi lo rappresentava: l’abbattimento del massimo potere occidentale, lo Stato.
Che tipo di rivoluzioni sono state quelle arabe degli ultimi mesi?
L’ispirazione nonviolenta vale per gli islamici come per i cristiani (che hano fatto crociate e stragi tra cristiani di confessioni diverse): nel Corano Abele ha un bellissimo insegnamento verso Caino; negli anni ’30 l’afgano Gaffar Khan aveva costituito un esercito di una decina di migliaia di nonviolenti tra i terribili guerrieri pashtun. Ragionando alla Galtung, quattro sono state le linee di faglia che hanno caratterizzato i terremoti arabi: i giovani, le donne, l’economia da fame, e (il messaggio, ambiguo ma sostanzialmente positivo, che l’ONU comunica) i diritti umani contro l’oppressione statale. Esse hanno fatto apparire la situazione come intollerabile, tale da preferire il suicidio (vedi il laureato panettiere tunisino) o l’avventura politica più estrema (vedi il video dell’eroina egiziana: http://www.youtube.com/watch?v=FcSs9_FY0Cs). Si calcola che circa 100 milioni di persone abbiano partecipato alle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto. Esse hanno ottenuto pacificamente quella democrazia che USA e NATO vogliono imporre in Afganistan ed Irak con quasi 5oo.ooo soldati e 3.000 miliardi di dollari.
Che tipo di strategia organizzativa ha permesso loro di esprimersi e giungere a compimento?
Sicuramente non una strategia architettata dalla CIA (così come la sinistra sospetta delle rivoluzioni nonviolente nel mondo). Piuttosto, ha saputo “unire”. Unire i cittadini di uno Stato (il cui simbolo è stato appunto la bandiera); unire tutti color che sentivano l’esigenza di un’etica positiva; unire credenti islamici e cristiani, che a turno pregavano in piazza Tarhir (al di fuori degli estremismi, tipo Al Qaeda); unire nella pari dignità uomini e donne (tanto più nelle comunicazioni Facebook e Twitter); unire nella reazione nonviolenta alla polizia (2,5 milioni in Egitto) che ha sparato ed ucciso (circa 400 persone in Egitto), nella resistenza nelle piazze, animate politicamente e nella fiducia nell’esercito, che aveva deciso di fiancheggiare i rivoluzionari.
Quali sono stati i motivi del loro successo?
Ne vedo tre: 1) oggi la politica nonviolenta è la più “esplosiva” perché non accetta l’attuale forma dello Stato (infatti non ha Stati rappresentativi), ma ne cerca una rifondazione radicale, più di quanto diceva di volere il marxismo e di quanto va in cerca il mondo islamico (l’esperimento iniziato nel 1979 in Iran si è irrigidito in una dittatura); 2) La capacità delle donne di andare contro uno Stato che certamente è una costruzione (storica) maschilista e, concependo giustamente la rivoluzione in continuità con la vita quotidiana di ogni madre di famiglia, di renderla nonviolenta (nella storia delle rivoluzioni, quelle nonviolente avvengono facilmente quando le donne riescono a crescere come attori sociali) e di realizzare il centro della strategia: fratturare le forze repressive del regime (ad es. in Egitto l’esercito, contro l’Aviazione (!), ha protetto con i carri armati il popolo di piazza Tarhir. Amhadinejad, per difendere il suo potere da questo pericolo, ha ben tre forze repressive); 3) la loro compattezza. Anche nelle 67 rivoluzioni nel mondo tra il 1975 e il 2002 le 18 rivoluzioni nonviolente (o quasi) condotte da movimenti compatti hanno liberato tutti gli Stati, solo uno è rimasto parzialemente libero.
Cambia qualcosa adesso nella teoria della rivoluzione (e anche in quella della nonviolenza)?
Cambia molto: 1) è definitivamente chiarito che sono i popoli i primi attori politici di questo tempo (non tanto le classi o le moltitudini di T. Negri); 2) i popoli non tollerano più dittature, fossero anche in nome del proletariato o dello strapotere USA; 3) si è realizzata la profezia di Lanza del Vasto (1959): “l’onda lunga dello Spirito, sollevata da Gandhi, non ricadrà fino a che non avrà ragiunto il mondo intero”; 4) con quelle arabe la stessa parola rivoluzione ha acquistato definitivamente il senso opposto a quello del passato: non più violenta, ma: a mani nude, dei garofani, di velluto, dei ciclamini, ecc. Dopo le ultime, anche i nonviolenti occidentali debbono cambiare idea: con Praga ’68 compresero che in Europa la politica nonviolenta non era solo l’antimilitarismo razionalista; con le rivoluzioni del 1989, che non occorre accodarsi al marxismo per fare politica rivoluzionaria nel mondo (anzi!); ora, che una politica nonviolenta “laicizzata” e razionale non è la più efficace: si deve piuttosto ritornare a quel rapporto con l’etica e la religione che Gandhi aveva, ma che i “troppintelligenti” occidentali avevano spurgato. Anche perciò le rivoluzioni arabe hanno preso in contropiede l’Occidente.
È possibile una sinergia con movimenti popolari che hanno scelto la via della violenza?
Lo studio comparato delle 323 rivoluzioni del XX secolo indica che il centinaio di nonviolente ha avuto il 53% di vittorie, mentre quelle violente il 26%. C’è uno scarto molto grande, che indica metodi politici poco compatibili: Ad es. nel Nepal, per anni la guerriglia maoista aveva provato inutilmente a scardinare l’imperatore-dittatore. Poi è nato un movimento popolare nonviolento che, in collaborazione con maoisti, ha realizzato una rivoluzione travolgente. Ma da tre anni c’è una lotta politica durissima tra i due gruppi assieme al potere, sulla forma Stato e sulle decisioni principali.
E sulla situazione in Libia?
C’è un preciso parallelo. La lunga serie delle rivoluzioni nonviolente del 1989 si interruppe in Jugoslavia; qui la fretta (spontanea?) di Vaticano e Germania nel riconoscere la Slovenia (prima dell’UE) fece nascere una guerra fratricida; gli USA insistettero fin quando non riuscirono a ottenere il via libera ai bombardamenti (unica strategia di cui dispongono); e così riportarono l’attenzione mondiale sulle armi e sugli eserciti. Oggi le rivoluzioni arabe si stanno bloccando perché i Paesi occidentali hanno trovato il modo giustificare il loro intervento bellico repressivo: trovando “l’utile idiota” della nuova situazione, Gheddafi (che per di più: ha petrolio, riserve di oro, capitali finanziari sparsi nel mondo; vuole lasciare il dollaro per passare ad un “dinaro d’oro” con l’accordo degli altri Paesi nord africani; e, quasi unico nel Mediterraneo, si rifiuta di collaborare con la Nato). Sbandierando la pietà pelosa dell’intervento umanitario, hanno coartato l’ONU a dare un consenso (con stranissime astensioni dei Paesi con diritto di veto) ad una gravissima violazione del diritto internazionale; la quale ha creato un pessimo precedente: da quest’anno gli affari interni di un Paese sono giuridicamente affari della superpotenza USA.
Qual è il futuro della nonviolenza?
La nonviolenza è lo sbocco naturale di ogni etica e di ogni spiritualità che vengano riportate direttamente nella vita sociale; perciò essa avrà sempre un futuro finché ci sarà una umanità propositiva.
(«l'Altrapagina», maggio 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano