martedì 22 marzo 2011

A. Tagliapietra, Icone della fine, ed. il Mulino, 2010

Icone della fine
L’umanità è sempre stata attratta, per non dire ossessionata, dall’idea della fine. Che si tratti della catastrofe planetaria in cui tutti periscono, o della biblica “fine dei tempi” (che rimanda istintivamente all’Apocalisse di Giovanni), o semplicemente della morte propria e dei propri cari, l’uomo continua a produrre da sempre immagini della fine. “Icone della fine”, per dirla con il titolo del libro di Andrea Tagliapietra (ed. il Mulino, 2010), che da sempre invadono la letteratura, la pittura e, nell’ultimo secolo, il cinema.
Tagliapietra esplora con fare dotto ma leggero questa galleria, dal saggio di Kant sulla fine di tutte le cose alle opere di Kandinskij, dal Concilio di Nicea sulle immagini all’Angelus Novus di Walter Benjamin. Approfondendo in particolare le espressioni del
cinema contemporaneo, in cui spadroneggiano i cosiddetti desaster-movie come 2012 o The Day After, nei quali appare chiaramente che l’uomo è tutt’altro che esausto di rappresentarsi la peggiore delle conclusioni alla propria terrestre avventura, personale e collettiva.
Immaginazione-immagini. Non è un caso che i film siano i protagonisti di quest’opera (che si potrebbe inscrivere, anche per questo motivo, nella categoria della filosofia “pop”, genere molto in voga oltreoceano, che spesso - come in questo caso - offre opere di filosofia accessibili ai più, in confronto con gli aspetti più prossimi alla vita quotidiana). Sono le immagini ad esprimere la fine, non le idee; perché la fine è un paradosso, un abisso, un controsenso, dove l’idea si arresta. Non si può pensare la fine. Si può soltanto raffigurarsela.
Partendo dalla constatazione di un’umanità sempre più consapevole dell’urgenza e della irreversibilità del problema ecologico, Tagliapietra spiega che le icone della fine emergono da un lato forse per esorcizzare la paura di un baratro che si percepisce in avvicinamento, dall’altro per impegno civile: assistiamo così a un cinema dedito all’esplorazione degli scenari più foschi e irredimibili. E non sempre dal lieto fine hollywoodiano.
La modernità tuttavia ha saputo raffigurarsi la fine non solo dal punto di vista del cataclisma definitivo, ma anche dal punto di vista individuale: nell’icona di Don Giovanni, gaudente libertino, si disvela il vuoto di un’esistenza passata alla dilapidazione seriale delle proprie risorse, del proprio talento, del proprio tempo; nel ritrito catalogo delle conquiste di Don Giovanni si legge la stanchezza di una vita dissipata, priva di qualunque ebbrezza o fascino, attanagliata dalla compulsione a ripetere le solite, inutili azioni di sempre (come nella scena degli zombie al supermercato di Romero). La fine non è solo la morte. E si può esser morti anche rimanendo in piedi.
Le icone della fine sono forse un modo per allontanare da sé lo spettro della morte. Ma anche, può darsi, un monito a vivere la vita in pienezza oggi, ricordando che la morte è davvero dietro l’angolo. Forse un invito, riprendendo il tema biblico, a “vivere in questo mondo come se non si fosse di questo mondo”. O infine un richiamo a riappropriarci di questa vita e di questo mondo. Finché siamo in tempo.

(«Pagina3», 22 marzo 2011)

Paolo Calabrò

Filosofia e Noir

Madrelingua napoletano, vive a Caserta, dedicandosi alla famiglia, alla filosofia e, ovviamente, al noir. Gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano